«Lavorare uccide» da Nord a Sud, e soprattutto all'Ilva
Ogni anno, in Italia, 1300 uomini e donne muoiono sul posto di lavoro. Muoiono nei cantieri, nelle miniere, nelle fabbriche, lungo le autostrade, come se fosse qualcosa di ineluttabile. I loro decessi formano una lunga fila di numeri che raramente - come nei casi della ThyssenKrupp di Torino o del Truck Center di Molfetta - conquista le prime pagine dei giornali, trasformandosi in analisi, approfondimenti, storie di vita. Per fortuna, a ricordare le «morti bianche», e la precarietà che genera insicurezza, ci pensa qualche volta la letteratura, o almeno il reportage di lungo respiro che finisce nei libri. E' questo il caso dell'ultimo libro di Marco Rovelli, Lavorare uccide, edito dalla Bur.
Il massese Rovelli attraversa la penisola da nord a sud e tutte le tipologie di lavoro: incontra e intervista famigliari delle vittime, esperti, sindacalisti. Le pagine più belle sono forse quelle dedicate alle sue Apuane e ai morti nelle cave di marmo. Quelle più tragiche sono, purtroppo, quelle che riguardano l'Ilva di Taranto.
Si apprende dal libro di Rovelli che la provincia di Taranto ha il più alto tasso di infortuni (11,33 per cento addetti!) e a far lievitare i numeri è proprio l'Ilva: «Qui c'è il primato in Italia delle morti sul lavoro. Dal 1993 al 2007 sono morti in quaranta, sei negli ultimi due anni: due operai Ilva e quattro delle ditte di appalti e subappalti».
Come noto, l'ex-Italsider è il più grande stabilimento industriale del paese.
Nonostante la privatizzazione, conta ancora 13 mila dipendenti diretti e oltre 4 mila nell'indotto. E se negli ultimi quindici anni la situazione all'interno della grande fabbrica è lentamente migliorata, il grosso degli infortuni oggi si è spostato verso le ditte in appalto: all'interno della miriade di piccole aziende che offrono mansioni a costi inferiori e che, per risparmiare, allungano i turni di lavoro e comprimono i costi della sicurezza.
Alcune pagine sono dedicate all'Associazione 12 giugno che raccoglie i famigliari delle vittime dell'Ilva. Il 12 giugno del 2003 (data da cui l'associazione ha preso il nome) due ragazzi, Paolo Franco e Pasquale D'Ettorre, caddero da una gru alta cinquanta metri improvvisamente spezzatasi in due. Ma in modo non meno tragico, e per il mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza, sono morti anche Luigi Di Leo, Giovanni Satta, Antonio Mingolla, Arjan Gjoni… Oggi si spera in controlli più efficaci e in tal senso, nell'ottobre del 2007, è stato costituito un Nucleo operativo integrato di prevenzione e vigilanza.
Tuttavia per capire appieno quelle morti e il loro significato bisognerebbe collocare, ancora una volta, la vicenda-Ilva all'interno del collasso economico e sociale dell'intera città jonica. Non si capirebbe ad esempio perché si accettano, ancora nel XXI secolo, condizioni di lavoro così umilianti e un inquinamento che fa paura, se non si parte da un'analisi delle periferie joniche, vittime di degrado e disoccupazione. Da lì l'Ilva, anche con i suoi rischi, appare ancora il migliore dei mondi possibili. Verso questa forma di racconto della città, meticoloso e partecipato, si è diretta ad esempio Ornella Bellucci con il suo lungo reportage Il mare che non c'è contenuto nel recente volume collettivo edito da Minimum Fax Il corpo e il sangue d'Italia.
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