L'Ultimo tabù e l'ILVA
D'accordo, tira una brutta aria, la congiuntura economica a livello nazionale è quella che è. Pessima. Qui da noi le cose vanno se possibile ancora peggio, prova ne sia — tra l'altro — la crisi del distretto del salotto, nonché la ripresa dell'emigrazione interna, non solo di chi cerca lavoro, ma anche dei ragazzi che vanno a studiare negli atenei del nord nella speranza di trovare quegli spazi che nelle nostre città ormai non esistono più.
Quindi, come ci viene ricordato spesso da autorevoli commentatori, conviene non fare tanto i difficili e aggrapparci a quelle poche industrie che tirano. L'Ilva, ad esempio. C'è qualcuno in giro che se la sente di tagliare uno dei pochi rami su cui siamo seduti? Certo che no. E allora zitti e mosca.
Se qualche ingenuo si azzarda ad avanzare qualche timida osservazione, finisce paro paro nel calderone degli oscurantisti medievali che hanno in odio l'industria o peggio, nel girone degli ecologisti un tanto al chilo che sono bravi solo a dire no. Ma è evidente a tutti — o quasi tutti — che messa così la questione assume un evidente carattere ricattatorio. E chi ha il coltello dalla parte del manico ne approfitta per lasciare le cose esattamente come stanno. E cioè male.
Come altro interpretare il ricorso dell'Ilva alle carte bollate per impugnare impegni già presi con le istanze pubbliche? E come altro leggere il Piano per ridurre l'inquinamento ambientale che per quanto riguarda tempi, quantificazione e modalità della riduzione delle emissioni, rimanda tutto alle calende greche?
Ora mettetevi nei panni dei genitori con bambini da crescere: come pensate reagiranno alla notizia che i veleni che respiriamo e che fanno schizzare in alto la possibilità di contrarre malattie mortali saranno abbattuti, se va bene, da qui a otto anni?
Qualche mese fa si parlò di diossina nel latte materno, e tra le tante voci che si levarono, non ce ne fu nessuna che sottolineò l'aspetto simbolico che vi era implicito, e cioè la profanazione dell'ultimo tabù che ci è rimasto: la maternità. Le nostre donne, nell'atto di nutrire i propri figli, li «avvelenano».
C'è al mondo oltraggio più grande? Profanazione più sacrilega? E quale futuro può avere una società che mette in discussione persino il valore della vita? Che non si ferma neanche davanti a ciò che per millenni abbiamo considerato sacro? Che davanti all'accertata presenza di veleno nel latte delle madri fa spallucce? Qui non si tratta di sognare improbabili ritorni ad arcaiche civiltà del-l'oro, o di dichiarare guerra alla civiltà industriale. Ci mancherebbe altro. Si tratta di esigere controlli rigorosi e credibili nonché l'adozione urgente e inderogabile di quelle misure che vigono nei Paesi più civili del nostro e che rendono quanto meno compatibile la coesistenza con le industrie a forte impatto ambientale. E' chiedere troppo?
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