«Io operaio Ilva ora ho paura del futuro»
TARANTO - «Adesso ho paura. Ho paura del futuro, di quello che accadrà, di questa maledetta crisi. Ho paura di guardare negli occhi i miei figli: cosa darò loro da mangiare? La cassa integrazione è un’ombra che mi segue e non mi fa dormire. Come un nodo in gola. Peggio della polvere, del fumo, del fuoco».
Francesco (nome di fantasia, nell’universo senza nome della fabbrica), operaio dell’Ilva, sa che le ferie forzate non bastano più, che il siderurgico annega in un mare di coils invenduti, che la cassa integrazione bussa alla sua come a mille altre porte: «In questi anni abbiamo dato il massimo. Record produttivi uno dietro l’altro: ha presente La classe operaia va in paradiso ? Quando Gian Maria Volontè ci dà dentro come un matto alla catena di montaggio? Abbiamo reso a mille, abbiamo creato le premesse per risultati e profitti da guinness dei primati. Non è servito a scongiurare gli effetti della crisi; tutto sembra crollarci addosso, peggio di un incidente sul lavoro: oggi ricordiamo quello che sembrava dimenticato negli anni euforici: noi operai, come sempre, rappresentiamo l’anello debole della catena. Siamo semplici numeri. E i record produttivi, impensabili qualche tempo fa, sembrano svaniti. Peggio dei titoli di Borsa».
Un racconto denso, quello di Francesco, fatto di impressioni che si affollano nella testa, nel cuore: «Dentro lo stabilimento ci siamo guardati in faccia, tenendo stretta la paura. Ma è stato inutile: sfuggiva; sfuggiva e correva impazzita di bocca in bocca, di occhi in occhi. Forse, però, una parola è servita anche a sentirsi meno soli. Noi operai dell’Ilva oggi siamo sotto i riflettori per la questione ambientale, per la diossina. Chi pensa a noi come a persone insensibili, che se ne fregano, deve sapere una cosa. Noi l’inquinamento non lo ignoriamo, lo subiamo quotidianamente, perché siamo in prima linea. Ma i posti di lavoro vanno salvaguardati. Quando torno a casa mi chiedo: tenerci l’inquinamento e trovare il piatto a tavola? Io dico di sì se non ci sono alternative, se non c’è un progetto che prospetti, ad esempio, la chiusura dell’area a caldo, dando comunque opportunità di lavoro diverse, anche fuori dall’Ilva. Per questo quando sento parlare di referendum sorrido. Taranto, la sua classe dirigente, non sono in grado di pensare a domani mattina, figuriamoci se possono progettare il futuro. Per questo abbasso la testa e dico: ci teniamo l’inquinamento per avere il piatto a tavola».
La decisione è stata assunta dal gruppo Riva in quanto la siderurgia sta attraversando un grave periodo di crisi e si stima che almeno la metà della produzione di tubi e coils resti invenduta. La cassa integrazione non riguarderà gli operai del tubificio e il treno lamiere.
Fim, Fiom e Uilm hanno preso atto della situazione e hanno chiesto un aggiornamento dell’incontro per esprimere un parere su quanto annunciato dall’azienda. Nei prossimi giorni sono previsti confronti con le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). Da alcune settimane una parte sostanziosa della produzione dello stabilimento di Taranto è stoccata nell’area portuale ed era già stata concordata una turnazione di ferie forzata per 180 dipendenti.
Non sarà facile affrontare la cassa integrazione: «Per chi, come me, vive del solo stipendio e deve fronteggiare le spese mensili di una famiglia di quattro persone, comprensive di mutuo e finanziamenti vari, le prospettive non sono brutte. Semplicemente non ci sono. Pensando ai miei bambini e alla cassa integrazione provo, ripeto, un senso di angoscia. Mi chiedo se questa città lo capisce, la città che ha dimenticato i suoi operai, gli operai dell’Ilva».
Francesco, come tanti colleghi, al sindacato non crede: «Non ci sentiamo rappresentati. Ci cercano solo per il voto delle rappresentanze in fabbrica. Dovrebbe essere diverso, invece. Dovrebbero parlare di più con noi. E con noi dovrebbe parlare l’azienda. Noi vorremmo un dialogo diretto con il signor Riva, ma è quasi impossibile. Vorremmo dirgli che abbiamo contribuito a far crescere l’Ilva. E’ il caso di ricordarselo ora che le cose vanno male».
Francesco ci lascia, stringendo i pugni nelle tasche del giubbotto. Il vento si porta via parole e foglie. Lontano il crepuscolo reso ancor più rosso dal fuoco delle acciaierie: «Bisogna affrontare questo momento delicato con dignità ». La classe operaia non va in paradiso.
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