Lì dove c’era l’Italsider ora c’è una città
Informare. Ovvero “dare forma”, plasmare. Sì, ma cosa? Un’opinione pubblica consapevole, secondo il sociologo Jurgen Habermas, terreno di cultura, humus e alimento di un vivere autenticamente democratico. Che per essere tale e favorire la partecipazione popolare alla condivisione delle scelte di interesse comune, non può prescindere da un cittadino-elettore dotato della conoscenza dei fatti, di strumenti di comprensione, di elementi di discernimento e di scelta. Ovvero da un cittadino informato. C’è un tema su cui, trasversalmente alle appartenenze politiche e demografiche, la nostra opinione pubblica pare progressivamente diventare più sensibile. Complice l’informazione. Che nelle ultime settimane, anche sulla ribalta nazionale, ha reso Taranto punto di partenza e caso esemplificativo di una seria riflessione sul rapporto tra grande industria e tutela ambientale. In principio fu La7 – proprio mentre il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, dichiarava guerra all’Unione Europea sulla riduzione delle emissioni per la salvaguardia del clima – a mostrare alla nazione, nella prima puntata del programma “Malpelo”, le polveri di “minerale” depositarsi sui balconi del quartiere Tamburi.
Venne poi il “Corriere della Sera”. A incoronare, qual ora ce ne fosse bisogno, Taranto come città più inquinata d’Italia (secondo un macroindicatore ottenuto dalla somma di tutte le emissioni nocive, quasi cinque volte più inquinata della medaglia d’argento, Livorno) e a mandare su tutte le furie il sindaco Stefàno per una definizione (“morti viventi” a proposito dei tarantini) ritenuta offensiva. Infine fu ”la Repubblica” a denunciare il gioco di Prestigiacomo, pardon “di prestigio”, con cui il Ministro dell’Ambiente ha azzerato lo staff di tecnici incaricato al rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) all’Ilva di Emilio Riva, fresco coprotagonista di quella Cai a cui il Governo guarda con fiducia per il salvataggio di Alitalia. Alimenti per un’opinione pubblica che, nel futuro prossimo, sarà consultata sulla chiusura totale o parziale dell’Ilva. Riconversione e bonifica le parole d’ordine dei sostenitori della chiusura. Ma come è possibile riconvertire? Quali gli effetti sull’ambiente? E soprattutto, quanto pesanti le ricadute occupazionali?
Cornigliano (Genova) e Bagnoli (Napoli). Due quartieri accomunati non solo dall’esser bagnati dallo stesso mar Tirreno. Come oggi i Tamburi in riva allo Ionio, entrambi ospitavano stabilimenti Italsider, prima, e Ilva, poi. Fino a quando riconversione e bonifica non divennero parole d’ordine e politiche concrete. A spiegarcene gli effetti è Emanuele Imperiali, portavoce della Bagnoli Futura. Società di trasformazione urbana copartecipata da Regione Campania, Provincia e Comune di Napoli, la Bagnoli Futura è il cuore del processo di trasformazione del quartiere. “Il processo di dismissione” – spiega Imperiali – “è stato inizialmente affidato ad altre società”. Era il 1994 e con delibera CIPE il Governo stanziava per Bagnoli circa 400 miliardi di lire. Sono l’Ilva, prima, e la Bagnoli S.p.A., successivamente, a occuparsi della dismissione soprasuolo. Ovvero dello smantellamento degli impianti. Macchine e manufatti industriali vetusti vengono demoliti, mentre quelli funzionanti vengono rivenduti e partono verso Oriente.
Nel 1997 la Bagnoli S.p.A. inaugura la fase di bonifica del sottosuolo, attraverso sondaggi geognostici e geofisici e campionamenti di acque e terreni. I risultati sono allarmanti. Viene riscontrata nel sottosuolo un'ampia presenza di metalli pesanti (arsenico, piombo, stagno, vanadio, zinco), mentre nelle acque vengo rilevate tracce superiori alla norma di ferro, manganese e idrocarburi. Ciò nonostante i lavori di bonifica del sottosuolo e di riprogettazione del quartiere procedono a rilento.
Così nel 2001 il Comune di Napoli acquista gli spazi occupati un tempo dalla grande industria. Non solo Italsider, ma anche l’area ex Eternit, pesantemente inquinata per la presenza di amianto. “Fondamentale in questi processi è il ruolo delle istituzioni e della politica (Bagnoli Futura nacque, in sostanza, grazie a quell’acquisizione di terreni e ai successivi piani regolatore ed esecutivo): se la riconversione non è guidata dal pubblico è difficile che ad essa pensino i privati che, nel caso, opererebbero con finalità meno sociali”. Acquisto oggi impensabile per una terra, quella ionica, con Enti gravati da debiti e assenza di liquidità? “Il valore dei suoli fu stimato in 62 milioni di euro e questi furono acquistati a debito, con ipoteche sui territori acquistati e relativi interessi”.
Il piano finanziario legato a Bagnoli Futura, spiega infatti Imperiali, “prevede costi iniziali da sopportare per ricavare in seguito denaro dalla rivendita dei suoli acquistati e trasformati”. È dall’acquisto dei terreni della grande industria che Bagnoli Futura diventa operativa, procedendo alle complesse operazioni di bonifica del sottosuolo. “Il ciclo industriale della bonifica è lungo e complesso. Alle rilevazioni sui terreni, fanno seguito gli scavi. Alle volte è necessario procedere con le escavatrici fino al livello della falla, al fine di lavare i terreni, per poi ricoprire il tutto.
In presenza di contaminazioni da amianto è necessario poi procedere all’inserimento di materiali e terreni in enormi bustoni, big bag, segnati da una lettera A, da conferire poi a discariche speciali”. Lavoro delicato e complesso, quello di bonifica, che inevitabilmente ha anche costi elevati. Che Bagnoli può sopportare in virtù di mirati finanziamenti statali. “Settantacinque milioni di euro sono stati destinati dal Parlamento con la Finanziaria 2000 per la bonifica di Bagnoli. A quel finanziamento s’è poi aggiunto un modesto finanziamento regionale. Ad oggi queste cifre, stanziate e disponibili, sono state spese solo in parte”. Spesa sostedi nuta per bonificare, fino ad oggi, circa il 35% delle aree ex Italsider ed Eternit dismesse. Ma con quale impatto per l’occupazione? “La dismissione dell’area industriale è stata operata grazie anche a politiche occupazionali di ampia garanzia per i lavoratori. Gli operai non prepensionabili furono subito assorbiti nella Bagnoli S.p.A. per i lavori di smantellamento e demolizione, completamente compatibili col know how maturato in Italsider.
Nei cinque anni che separano l’esperienza della Bagnoli S.p.A. da quella di Bagnoli Futura alcuni di questi hanno raggiunto l’età pensionabile. Altri duecento sono invece stati assorbiti in Bagnoli Futura. Tra assorbimenti e scivoli pensionistici e prepensionistici, nessuno ha perso il proprio stipendio. Attualmente sono solo sette i lavoratori ex Italsider in carico a Bagnoli Futura”. Che oggi non solo crea nuovi posti di lavoro, ma da anche ai giovani laureati napoletani possibilità lavorativamente migliori da quelle offerte un tempo dall’Italsider.
Sono principalmente di tipo ingegneristico, infatti, le competenze oggi richieste dall’azienda. Perché dismissione e bonifica da sole non bastano e Bagnoli prova a costruire per sé un nuovo futuro. Fatto, spiega ancora il portavoce della Bagnoli Futura, da centri multifunzionali, un polo industriale leggero orientato alla specializzazione e alla tecnologia, strutture ricettive per il turismo e (poche) aree residenziali. Insomma, l’obiettivo è, spiega Imperiali, “una trasformazione urbana vera”.
Aspettando il suo completamento, Bagnoli si gode una migliorata qualità ambientale. “Siamo un sito di interesse nazionale di bonifica e i nostri lavori procedono a stretto contatto col Ministero dell’Ambiente. Per ogni terreno bonificato necessità un certificato di avvenuta bonifica, conseguibile solo previo esame ministeriale. Che, se non superato, impone ulteriori interventi finalizzati al raggiungimento dei (pur bassi) parametri ambientali fissati dal ministero”. Qualità ambientale che, spiega Imperiali, ha abbassato considerevolmente la mortalità nei pressi di Bagnoli ormai ex area industriale. Esempio di riconversione, nel cuore del Mezzogiorno, che insegna come salute e lavoro non sono forse opposte e incompatibili possibilità. “È un vecchio dilemma quello che oppone salute e lavoro. L’uomo deve, per istinto, sopravvivere ma, soprattutto al Meridione, ciò è difficile senza lavoro.
Spetta alle istituzioni locali, Regione in primis, riqualificare l’area per tutelare la salute dei propri cittadini, rendendo compatibili lavoro e salute”. Come a voler ricordare a una città che non ha scelto di essere necessaria, che si lavora per vivere, non per morire.
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