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Taranto, i malati dell’Ilva

La questione dimenticata dell’Ilva di Taranto, l’impianto siderurgico più grande d’Europa che continua a produrre diossina e a far ammalare la gente.
3 novembre 2008
Ilario Galati

ILVA di Taranto Taranto. 200 mila abitanti, due mari e il più grande impianto siderurgico d’Europa. Quello che produce il 93% di tutta la diossina prodotta in Italia e che le regala il triste primato di città più inquinata del continente.

Dopo troppi anni di distrazione da parte della stampa che conta, le vicende relative all’Ilva – l’ex Italsider svenduto dallo Stato al gruppo di Emilio Riva – negli ultimi giorni hanno finalmente raggiunto le cronache nazionali. La storia del bambino tredicenne a cui è stato diagnosticato un cancro ‘da fumatore’ è paradigmatica della situazione di emergenza che vivono gli abitanti della città pugliese.

Proprio per questo, la decisione del Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, di rimuovere i tecnici antidiossina dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), non è passata sotto silenzio. Il Ministro ha da parte sua risposto lo scorso 29 ottobre con una lettera a Repubblica nella quale accusa di inefficienza i tecnici rimossi.
Parole che hanno trovato la dura replica del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: “Il Ministro ha mentito” - ha detto il governatore – “e le sue parole ci confermano quanto questo governo sia inaffidabile sotto il profilo della tutela ambientale”.

Ma intanto sembra che all’azienda il segnale sia arrivato visto che nell’audizione regionale di mercoledì scorso i dirigenti dello stabilimento hanno apertamente contestato i rilevamenti sull’inquinamento a Taranto sostenendo che i dati in loro possesso parlano di diossina ampiamente nella norma e, soprattutto, di assenza di morti e malati direttamente riconducibili all’attività dell’azienda. Dunque, la fabbrica dei veleni, i malati di tumore, le facciate dei palazzi ricoperti di polvere rossa e l’acre odore, che non puoi non sentire quando arrivi a Taranto, secondo i dirigenti dell’Ilva non esistono.

Mettendo in ogni caso da parte la querelle politica, il legame tra industria, inquinamento e lavoro da troppi anni strozza una comunità che subisce un vero e proprio ricatto: scegliere cioè tra il lavoro e la propria salute.
L’Ilva, senza considerare l’indotto, occupa circa 15 mila persone e rappresenta lo snodo centrale di tutta l’economia jonica. Per contro la logica del profitto applicata dalla dirigenza dello stabilimento ha fatto sì che la sicurezza ambientale fosse un elemento di secondo ordine. Ed evidentemente le amministrazioni locali e i governi nazionali non hanno vigilato come dovevano. Il risultato è drammatico: al di là dei dati relativi alla diossina, sono anche le emissioni di mercurio, IPA, benzene, PCB, arsenico e piombo a toccare livelli allarmanti. Nei giorni scorsi, l’associazione telematica per la pace Peacelink ha diffuso i dati di un dossier con la graduatoria delle province più inquinate. La capolista indiscussa è Taranto. In particolar modo, sono gli abitanti del quartiere Tamburi, che si trova a ridosso dello stabilimento, ad essere i più esposti: oltre ai fumi, anche alle polveri dei parchi minerali dell’Ilva, vere e proprie colline di minerale non coperte le cui polveri sottili si insinuano ovunque. Bastano poche ore per ritrovare balconi, panni stesi, automobili, ricoperti di questa strana fuliggine rossastra con la quale i cittadini convivono ormai da troppo tempo. Ovviamente il quartiere vanta il triste primato di patologie tumorali all’apparato respiratorio, con un’incidenza molto superiore al dato nazionale. Lo sanno bene i medici tarantini, che quotidianamente lottano contro questa realtà e lo sa bene Patrizio Mazza, primario del reparto di Ematologia dell’Ospedale “Moscati” di Taranto che ha diagnosticato al bambino l’adenocarcinoma del rinofaringe, una patologia riscontrata solitamente in adulti e anziani fumatori.

Intanto la città, fortemente provata tra le altre cose dal dissesto finanziario provocato dall’allegra gestione del centro-destra, prova a reagire, grazie anche al lavoro delle associazioni ambientaliste e dei comitati dei cittadini. Nei giorni scorsi, infatti, il TAR ha accolto il ricorso presentato dal Comitato cittadino referendario per la tutela della salute e del lavoro “Taranto Futura”. Con il provvedimento del Tribunale, il Comune di Taranto ha l’obbligo di indire entro 90 giorni un referendum consultivo sulla chiusura dell’Ilva, e sul successivo impiego dei lavoratori nelle opere di smantellamento e riconversione degli impianti.

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