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Pizzo, droga e diossina

Qui la diossina è il refrain invasivo, la trovi dappertutto, nell’aria, nei campi, nella testa, nel sangue e nei polmoni della gente, l'hanno trovata anche nel latte materno. Taranto, un ragazzo difficile vuole una chance nel "quartiere dei morti", il più avvelenato d'Europa.
11 novembre 2008
Giancarlo Dotto
Fonte: La Stampa

- Lungomare di sera. Si va a strappi nel caos. Non puoi dimenticarlo anche volendo il fantasma che abita qui. Hai appena attraversato il ponte girevole, lo Jonio di qua e di là, a sinistra il Mare Piccolo, una specie di ernia liquida, fuoriuscita dal Mare Grande che sta a destra. Da forestiero della prima ora hai appena finito di dirti «quanto è bella Taranto vecchia» che quasi ci vai a sbattere contro il muro che scrive in rima baciata, come se fosse stato proprio lui a scriverlo, con il suo inchiostro nero di rabbia: «Ti svegli ogni mattina respirando la diossina».

Qui la diossina è il refrain invasivo, la trovi dappertutto, nell’aria, nei campi, nella testa, nel sangue e nei polmoni della gente, l'hanno trovata anche nel latte materno. Qui nascono tutti scienziati, tutti sanno tutto della chimica che ammazza, che nella città più inquinata d’Italia si concentra il 93 per cento della diossina nazionale e la favola che raccontano ai figli è quella del cancro dei fumatori diagnosticato tempo fa a un tredicenne mai fumatore di Tamburi, «il quartiere dei morti viventi», il più esposto alle polveri dell’Ilva. Le ciminiere dell’acciaieria più grande d’Europa fumano giorno e notte, sono il totem spettrale che dà lavoro e morte, sono il brand della città, come San Marco a Venezia e San Francesco ad Assisi. Insieme ai fuochi delle raffinerie compongono soprattutto di notte l’incubo di famiglia, il paesaggio di un’apocalisse alla Rob Bowman. Ci sono volute le iene televisive per fare di Taranto una questione nazionale. «Hanno dovuto abbattere migliaia di pecore che pascolavano in zone sature di diossina», racconta Piero, trentenne disoccupato, volontario tuttofare sul set di «Mare Piccolo».

Il luna-Park è deserto. La gente non va più sull’ottovolante, non spara più ai bersagli animati. Giulio sta lì con il suo berretto largo e la faccia spiritata a piantonare con il padre una giostra deserta. Giulio Beranek, 21 anni, fa l’attore di giorno e il giostraio di sera. Una famiglia di circensi la sua, parenti dei Togni da parte di madre. Il nonno domava i leoni e la nonna incantava i serpenti. Giulio se la cava da trapezista, quando serve. Tenetelo bene a mente questo nome, Giulio Beranek. Impressionante attore naturale. Uno che «sente» la macchina da presa. Un fascio di nervi, la faccia che sa sempre dove andare, uno sguardo che si pianta dentro qualunque cosa guardi. Mobilità che procede per lampi, mai disordine o caso. Alessandro di Robilant, il regista de «Il giudice ragazzino», lo ha decifrato tra migliaia come protagonista nella parte di se stesso di «Mare Piccolo», il film sulla Taranto che solo i tarantini conoscono.

Ci ha preso gusto Giulio, padre ceko, madre di origini spagnole, anni passati in Grecia, calciatore mancato. «Quando non sto sul set per troppe ore vado in astinenza. E pensare che non ho mai fatto nulla del genere, neanche la recita a scuola…Eppure mi viene tutto naturale». Ex ragazzo difficile Giulio. «Quattro anni fa avresti incontrato un delinquentello tarantino» carica il padre, che è un duro, ma si commuove quando pensa alla sua Praga «dove la vita è leggera» e a questo suo figlio attore. Giulio annuisce: «Se cresci in certi quartieri prima o poi ci finisci dentro nella rete dello spaccio. Ci sono finito anch’io ma se ci sono uscito, vuol dire che non ho la testa per queste cose, che mi aspetto altro da me…Ci provo, male che va torno a fare il giostraio. Ma voglio andare via da qui. Tutti i giovani vogliono andare via da questa città».

Questa mattina il set è il carcere. Interni ed esterni. Si gira la scena di Tiziano, il protagonista, che, riabbraccia il padre fuori dal cancello. Giulio è preciso, intenso, come sempre. Di Robilant non deve spiegare più di tanto. «Quando c’è un vuoto lui sa sempre cosa fare, sa come coprirlo». Un regista dal carattere difficile e dalla passione civile. «Mare Piccolo» racconta la storia difficile di un ragazzo difficile nella Taranto dei quartieri più difficili. La pausa pranzo è nella mensa del carcere, niente male, le seppie sanno di seppia e le polpette sembrano la finzione plastificata di un B-movie ma poi sono buone e sanno di prosciutto. «La scoperta più interessante è la qualità di queste persone e come questa qualità vada spesso al servizio della piccola criminalità». Si ride sul paradosso. La malavita è uno dei pochi settori in Italia che premia la qualità.

Scelta non facile girare in quartieri come Paolo VI e Tamburi, zona sud di Taranto, abusi e illegalità ovunque, pistole incise sui muri insieme ai santi e alle Madonne, i veleni dell’Ilva come massima ambizione sociale. E’ finita su tutti i giornali nazionali la storia della Wertmüller che ha trasferito il set da Taranto a Brindisi per non pagare il pizzo. Nel caso di «Mare Piccolo» tutto liscio. «Abbiamo lavorato mesi sul territorio per creare una rete di consenso, informare, coinvolgere. La gente questo lo sente, ha le antenne, ti pesano in un secondo e difficilmente sbagliano». Le analogie con «Gomorra» fioccheranno. Di Robilant lo sa e non gradisce. «Il rischio è di essere considerati dei derivati, dei gomorrini di serie B. Il mio film è un’altra cosa, la storia di un ragazzo dal destino segnato che scopre di avere una chance».

Giorgio Colangeli fa l’educatore carcerario. Fila che è un piacere con Giulio alias Tiziano. Affinità elettive. Colangeli ha l’aria di uno capitato lì e ovunque per caso. Laureato in fisica, disperso in tutte le direzioni possibili. La sua è la storia di un attore di teatro che arriva tardi al cinema, ma quando ci arriva fa subito colpo. Qualcuno ha scritto del nuovo Gian Maria Volontè, dopo «L’aria salata». Ha la negligenza dei Mastroianni e dei Giannini, straordinari attori sulla sottrazione. Racconta di come ha perso quasi venti chili in un anno, di quando faceva l’attrezzista a teatro e le iniezioni per il fegato in camerino a Vittorio Gassman. Parla di Toni Servillo. «Un attore di testa, molto costruito, preziosissimo oggi in un cinema a forte rischio di naturalismo televisivo».

Marco Donati, il produttore, romano, non si stacca dal cellulare. deve sbrogliare con le autorità locali un caso pirandelliano. Uno dei suoi attori, Armando, ingaggiato con un permesso speciale nel ruolo di un pregiudicato locale, ex ospite del carcere dove ora dovrebbe tornare da attore, ma non può farlo perché nel frattempo ci è tornato davvero in carcere per l’ennesima marachella, roba di contrabbando. «Il regista non sa nulla. Non voglio che mi vada in depressione». I problemi non mancano in un set così ardito. «Durante le riprese in un interno di "Paolo VI" ha fatto irruzione la finanza e si è portata via la padrona di casa. Teneva 150 stecche di sigarette nell’armadio». Donati ha fortissimamente voluto questo film. Gli piacciono le storie di adolescenti. Ha anticipato soldi, investito al buio, prima che Rai Cinema, il Ministero e Apulia Film, l’agenzia dello spettacolo voluta da Niki Vendola per lanciare la Puglia come set cinematografico, accettassero di finanziare il film. Una produzione indipendente a basso costo, un milione e trecentomila euro. «Ma non ci siamo fatti mancare nulla e ora comincia la vera battaglia, essere invitati a Venezia o a Cannes».

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