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Riva è straricco, non chiude se dichiara guerra alla diossina

Il tentativo di conciliare il diritto al lavoro con quello alla salute ha indotto nei quarant'anni che abbiamo alle spalle, tanti in errore. Perché non tramutare un disastro ambientale in un'occasione di crescita?
19 novembre 2008
Francesco Boccia (*Parlamentare Pd)

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Il dibattito sulle vicende «ambientali » che legano l'Ilva a Taranto, riavviato dopo il varo delle proposte del governo regionale pugliese, sta riaprendo vecchi nodi irrisolti sul conflitto lavoro-ambiente-salute. Stimo il professor Federico Pirro, ma questa volta non condivido il suo invito alla prudenza e alla cautela che fa il paio, ma solo per analogia non voluta, con la semplicistica dichiarazione del ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo secondo la quale, applicando il piano della Regione, l'Ilva chiuderebbe in quattro mesi.

Il tentativo di conciliare il diritto al lavoro con quello alla salute ha indotto nei quarant'anni che abbiamo alle spalle, tanti in errore. Penso, e lo dico dopo averci riflettuto a lungo e dopo aver letto tutto quello che c'era da leggere sulla vicenda, che sia arrivato il momento di dire con chiarezza che a Taranto quel tentativo è miseramente fallito.

Nel 2008, la politica ha il dovere di fissare le priorità; anche se scomode; anche se politicamente non remunerative. Il diritto alla salute, nel caso di Taranto non può più essere oggetto di mediazioni o compromessi. Oggi quel diritto vince. Oggi quel diritto reclama uno Stato fermo, autorevole e in grado di garantire che la mediazione non avverrà più fra un posto di lavoro e un nanogrammo di diossina. Ma tra aria respirabile e un'azienda disposta a dare al territorio tutto quello che serve per raggiungere l'obiettivo.

Nel mondo occidentale non esiste più qualcuno pronto a dichiarare che la precedenza tra ambiente e occupazione tocca a quest'ultima. Il mutamento culturale, che pare non abbia ancora influenzato importanti fette della società, ha innescato nuove strategie produttive che in paesi a civiltà avanzata come la Scandinavia ma anche nella stessa Francia o Germania producono non una compressione dei livelli occupazione, ma un allargamento.

Mi spiego meglio. Perché non tramutare un disastro ambientale in un'occasione di crescita? Emilio Riva insieme a Berlusconi è uno degli uomini più ricchi d'Europa. Il fatturato del gruppo Riva ha sfondato il tetto dei dieci miliardi di euro. L'acciaio, dicono, subirà una contrazione dei consumi e quindi Riva ha deciso di mandare in cassa integrazione 2500 operai. Ma a leggere le analisi di Federacciai non è vero che si consumerà di meno. Il portafoglio ordini delle aziende siderurgiche subirà, nella peggiore delle ipotesi, un decremento del due per cento, ma mercati come Africa del Nord e la stessa Scandinavia continueranno a comprare acciaio perché non ne producono. L'Italia, invece, è leader europeo del settore.

Che cos'è cambiato? Sono mutati i margini di guadagno. I prezzi delle materie prime sono cambiati bruscamente e così anche i prezzi dell'acciaio. Quindi Ilva teme non di andare in crisi, ma di guadagnare di meno. Un'azienda ha il dovere di guardarsi dagli imprevisti del futuro, ma non ha il diritto di giocare sulla pelle di una città.

C'è un altro aspetto da chiarire. Emilio Riva ha avuto bisogno solo di poche settimane per staccare un assegno da 100 milioni di euro per finanziare una compagnia aerea, l'Alitalia, spostando ingenti capitali dal suo core business, cioè la sua attività principale, verso un investimento che per un'azienda siderurgica non ha nessuna ragione al mondo.

Un'azienda utilizza parte di ciò che guadagna per adeguare gli impianti, modernizzarli, investire sulla ricerca, acquisire nuove imprese. Un'azienda che teme anche e solo un po' di vento di recessione non va a comprare l'Alitalia. Qualcuno dirà: a Riva invece piace così. Certo, è un suo diritto. Ma è ancora garantito in questo paese il diritto di critica? Sorprende, invece, che dinanzi a un'emergenza ambientale come quella di Taranto, l'Ilva chieda non le poche settimane di tempo necessarie per staccare l'assegno per Alitalia, ma anni. Molti anni. E se a Taranto si continua a morire? Non è questa la prima emergenza?

L'occupazione è importante, d'accordo. Ma non c'è azienda al mondo e sfido il mio amico Pirro a individuarne una - che non abbia aumentato l'occupazione e la stessa produzione in conseguenza di un rinnovamento dei processi produttivi. In sostanza, inquinare meno aiuta e non solo perché si restituisce a una città il suo diritto alla salute costituzionalmente garantito ma così palesemente violato. No, inquinare meno consente di produrre meglio e rigenerare veleni in energia elettrica. I colossi industriali tedeschi stanno procedendo a loro spese, si badi bene e non con l'aiuto del Governo, all'azzeramento delle emissioni di anidride carbonica che catturate in apposite centrali e non disperse nell'atmosfera, generano elettricità e quindi ricchezza. Non ci può pensare anche l'Ilva? E i soldi dell'Alitalia non potevano essere spesi così?

Non sono un tecnico ma ho letto che Legambiente ha presentato al Ministro la scheda tecnica di una tecnologia che consente d'azzerare le emissioni velenose in sedici mesi. E' vero? E' una colossale panzana? Oppure le nuove centrali che Enel sta costruendo nel Nord Italia, alimentate dall'anidride carbonica prodotta dalle aziende, possono trovare patria anche qui, in Puglia, divenuta terra eletta per le energie rinnovabili? Occorrono soldi e occorre senso del futuro. Ciò che non possiamo subìre è l'ennesimo ricatto occupazionale. Perché in questo caso è bene che l'Italia chiuda subito i cancelli e ai suoi operai (e mi pesa come un macigno dirlo, ma in casi come questi è inevitabile) ci pensi la mano pubblica.

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