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Diossina, abbattuti migliaia di capi allo stremo gli allevatori

Mattanza per l'inquinamento, viaggio nella masseria della famiglia Fornaro: 504 tra pecore e capre finite al mattatoio. La legge regionale «è un buon inizio, sono 5 anni che con Riva si va avanti con gli atti d'intesa e nulla è stato risolto».
2 gennaio 2009
Angela Mauro
Fonte: Liberazione

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Lo stile è quello dell'800. Mura di cinta, cancello, corte interna tenuta a guardia da una decina di cani. All'esterno, ulivi, in tutto 35 ettari. Tipico paesaggio pugliese. Ma basta girare un po' lo sguardo che l'idillio svanisce.

Dalla corte interna, è sufficiente mettersi di fronte all'arco che sovrasta il cancello d'ingresso, sguardo in su: fumo. E' il camino numero 312 a riportarci alla dura realtà della famiglia Fornaro, allevatori da generazioni, ma da sempre "perseguitati" dall'Ilva di Taranto, il colosso dell'acciaio più grande e più inquinante d'Europa.

Siamo a due passi dal quartiere Paolo VI di Taranto e a circa un chilometro e mezzo dal gigante siderurgico dei Riva. Il camino 312 diffonde emissioni nocive "a ombrello". Sì, è la «definizione tecnica per dirti che la diossina dei fumi industriali non ricade proprio sotto la ciminiera, ma sui terreni circostanti e anche più in là, a seconda del vento…», ti spiega Vincenzo Fornaro, uno dei lavoratori dell'azienda di famiglia che negli ultimi tempi si sono improvvisati veri e propri attivisti dei diritti dell'ambiente, dei cittadini, della loro professione. Perché l'ultima sciagura proprio non ci voleva: tutto il bestiame dei Fornaro - 504 capi tra capre e pecore - è finito al mattatoio.

Abbattuto perché risultato positivo ai controlli anti-diossina effettuati dall'Arpa (Agenzia regionale per la Protezione Ambientale). Quella che in un video disponibile su you.tube è definita come "Un'inutile e tragica mattanza" si è consumata il 10 e 11 dicembre scorsi. Oltre al bestiame dei Fornaro, sono stati abbattuti altri 700 capi circa, individuati dalla procura di Taranto sulla base dei test dell'Arpa sul latte e il grasso degli animali. E' la prima volta che accade. E adesso i Fornaro e le altre due aziende più colpite (quella dei Quaranta, 330 capi abbattuti, e quella degli Sperti, 130 capi) non sanno che pesci prendere.

C'è anche questo risvolto nella lunga e intricata vicenda Ilva. Non solo morti sul lavoro (con tassi tra i più elevati d'Italia), non solo danni alla salute di operai e cittadini, non solo inquinamento generico dell'aria. Gli allevatori colpiti dall'ordinanza della procura sono le prime vittime materiali di una mentalità figlia del ricatto occupazionale che accompagna l'Ilva sin da quando era proprietà pubblica con il nome di Italsider: della serie, ci dà il pane in un sud malato di disoccupazione, l'ambiente passa in secondo piano. Una mentalità che negli ultimi due anni sta cominciando a sgretolarsi sotto i colpi di un neonato attivismo sociale in città, ma la battaglia sembrerebbe ancora lunga.

Ragionando in uno dei locali della masseria, dove sono ancora conservati gli striscioni del giorno della mattanza ("Vergogna! Punite le vittime e salvate i carnefici!"), i Fornaro sorridono per quello che il patron dell'Ilva, Emilio Riva, ha avuto il coraggio di dire ai giornalisti che lo hanno avvicinato domenica scorsa, in occasione della messa celebrata dall'arcivescovo di Taranto nello stabilimento siderurgico e mandata in onda su Raiuno. «Gli hanno chiesto dell'inquinamento… Ha detto che meglio di così non può andare perché la fabbrica sta per chiudere… Si permette anche di fare dell'ironia…», dice Emanuele De Gasperis, cognato dei Fornaro, anche lui impiegato nella masseria.

Riva fa dell'ironia sulla nuova legge regionale, approvata dall'amministrazione Vendola prima di Natale. E' la legge che obbliga l'Ilva a rispettare i parametri europei sulle emissioni di diossina (fino a 0,4 nanogrammi entro la fine del 2010), una legge inedita in Italia (la normativa nazionale permette emissioni fino a 10mila nanogrammi), malvista dal governo Berlusconi ma salutata con favore dall'opposizione di centrodestra in Puglia. «Ovvio - osserva Vincenzo Fornaro - Quest'autunno 25mila persone hanno manifestato a Taranto contro l'inquinamento, l'anno scorso erano poche migliaia. Tutti i politici locali si sono resi conto che il ricatto occupazionale non basta più: la gente muore per le emissioni nocive dell'industria, a noi l'inquinamento ci ha smantellato un'intera attività…».

Sul governo i Fornaro sono stati più che chiari in una lettera inviata poco prima di Natale al ministro Raffaele Fitto, ex governatore della Puglia. «Vediamo un governo che prima contesta la realtà del problema ambientale relativizzando i dati raccolti dall'Arpa, poi si eclissa completamente, ed oggi, usando il pretesto della crisi economica permette di porre in secondo piano la vita, la salute, il futuro e paradossalmente il lavoro, proprio quel lavoro che ci si vanta di preservare», scrivono.

La legge regionale invece «è un buon inizio - continua Vincenzo - sono cinque anni che con i Riva si va avanti con gli atti d'intesa e nulla è stato risolto».
Nei discorsi dei Fornaro il nome di Riva emerge quasi spontaneamente, constatazione di un dato di fatto innegabile e documentato, cioè che l'Ilva è il maggior responsabile dell'inquinamento in città, più della raffineria e del cementificio presenti nell'area industriale tarantina. Ma al momento la denuncia presentata in procura con gli altri due allevatori colpiti (Quaranta e Sperti) è contro ignoti. «Attendiamo l'esito delle perizie della procura, arriverà a metà gennaio, per dare un volto al colpevole: sarà il nostro regalo di Capodanno, dopo la mattanza che abbiamo trovato sotto l'albero a Natale…», dice Vincenzo. Suo fratello Vittorio si sofferma sul magro risarcimento predisposto dalla Regione. «160mila euro per tutti e sette gli allevatori colpiti".

Pochi se si pensa che quei soldi dovranno coprire le spese di «trasporto al mattatoio, abbattimento, eliminazione delle carcasse classificate in "categoria 1", rifiuti nocivi e dunque più costosi da smaltire…». Se la ridono, amaramente, pensando ad un altro paradosso della loro storia: le olive. «Ci abbattono il bestiame, ma ci permettono di produrre l'olio perché secondo la legge italiana i nostri terreni non sono stracarichi di diossina, solo un piccolo appezzamento è risultato positivo ai controlli. Pensare che per il vincolo sanitario e il divieto di pascolo disposto dall'Arpa ad aprile, eravamo costretti ad alimentare i nostri animali con metodi industriali in stalla. Risultato: circa 90 capi sono morti negli ultimi mesi. Naturale: si tratta di una razza abituata al pascolo…».

Eredi di un'attività ultracentenaria (il nonno di Vincenzo e Vittorio aveva una masseria che fu espropriata dallo Stato quando decise di costruire l'Italsider a Taranto, negli anni '50), i Fornaro avevano altri progetti per la loro fattoria. «Stavamo pensando ad un caseificio, ad una cooperativa sociale di tipo B, un Bed&breakfast». Sogni da riporre nel cassetto. Con un dubbio: «Ben vengano i controlli, ma forse aveva fatto bene l'associazione locale "Codici" a proporre di non abbattere i capi risultati positivi alla diossina, ma di farne materiale di studio sull'inquinamento. Noi stessi avevamo proposto di abbattere solo i capi più anziani, cioè quelli più esposti alla diossina».

Nulla da fare. Adesso, in attesa del verdetto della procura, ai Fornaro restano i cavalli. Proprio così, oltre alle olive, s'intende. Ne hanno alcuni all'ippodromo, gareggiano alle corse. Ma anche questa non è storia facile. Grassa risata: «Veniamo da un mese di sciopero degli operatori ippici…». Quello di quest'autunno contro i tagli annunciati dal governo per il settore. Storia rientrata, le corse sono riprese. Almeno questa è fatta.

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