Quando le persone escono dal problema e diventano soluzione
Marpiccolo è un film che consiglio vivamente. Siamo di fronte a una “storia aperta”, tutta ambientata a Taranto. Città piegata, ferita, avvelenata, così ci viene descritta. E così è nella realtà. I personaggi si muovono in uno scenario crudo e apparentemente senza speranza.
Ma, per quanto drammatico e violento, il film contiene anche il suo opposto. Include personaggi “vivi” e non rassegnati. Sono quelli i riferimenti che cambiano il senso e le emozioni della storia.
Il protagonista è un ragazzo di Paolo VI che insegue le facili scorciatoie del successo e dell’affermazione personale, anche violenta, che frequenta poco e male la scuola e che alla fine si fa agganciare dalla rete della malavita. Ha la moto di grossa cilindrata, ci sa fare con le ragazze, è sveglio e incarna il ragazzo vincente che riesce ad emergere anche in un quartiere segnato da un forte disagio. E’ dolce e delicato con la sorellina. Non è il bullo violento, ma al momento giusto lo diventa, perché il contesto è spietato e chiede ragazzi duri, furbi, capaci di imporsi e di farsi largo a gomitate, con doti personali di prontezza e di cinica intelligenza. Gli danno la pistola e una missione criminale. E lui ci sta. Spara. Finisce in carcere. A recuperarne l’umanità e il futuro è la sua ragazza, che non ha la forza ma solo la dolcezza e la determinazione per uscire fuori dall’inferno. Lascia forse l’amaro in bocca che la soluzione scelta sia di fuggire a Bologna per ricostruirsi una vita. Ma è del resto questa la strada che hanno scelto migliaia di giovani di Taranto in assenza di prospettive?
Il protagonista incarna un modello a cui molti ragazzi a Taranto sembrano ispirarsi. Ma viene sconfitto, non è la sua agilità a vincere, non è la sua vitalità a salvarlo. A risollevarlo è una nuova scelta di vita condivisa con una ragazza, che lo respinge da violento e ma lo riabbraccia all’uscita del carcere.
Sullo sfondo del film si staglia il profilo dell’Ilva e dell’area industriale. Una presenza costante, maestosa e inquietante. Mentre le storie di quartiere scorrono a ritmi serrati e crudeli, i camini sputano a ritmo lento e costante fumo e veleni. Sono i camini, nel loro spettrale silenzio, gli attori di un maestoso rituale. Scrivono il livello inconscio del film. Non dicono nulla ma in realtà dicono tutto. Generano senso di imminente tragedia. Incombono su una città in incosciente agonia. Sovrastano le mattine di sole, i rossi tramonti e le cupe notti di una città apparentemente senza speranza e senza vie di fuga. E’ la luce del giorno, con le immagini del Mar Piccolo, che ridà speranza nel film ad ogni risveglio. Uno sfondo di bellezza azzurra che combatte con uno sfondo di agonia grigia. Eros contro Thanatos, la pulsione di vita contro la pulsione di morte.
E’ un film duro, durissimo, quasi spietato. Ma, come si è detto, non senza prospettive. Perché, nonostante tutto, alcune persone positive sono presenti. In primo luogo le donne, le vere protagoniste del film.
Aspra e convincente è poi l’immagine dell’educatore carcerario che con durezza estrema dice ai ragazzi: vi siete fatti fregare, voi vi distruggete l’un l’altro mentre l’inquinamento distrugge tutti noi.
La lotta ambientale e per la tutela della salute, anche se non costituisce il filo conduttore della storia, emerge forte in almeno due o tre scene del film. Fa capolino nelle preoccupazioni di una bambina che sente dentro di sé l’incombere di una malattia che forse i grandi non le hanno ancora spiegato. La parola “diossina” viene gridata a gran voce da una donna al questore, durante una manifestazione di protesta. C’è la lotta contro l’“antenna selvaggia” che le donne in gruppo riescono a smontare, dimostrando che la lotta e l’unità possono anche vincere.
Ma il disastro ambientale non viene esplicitamente raccontato perché si staglia già maestoso e “senza parole” dalle immagini di sfondo.
Emerge invece bene (e forte) il ruolo fondamentale della scuola. Una professoressa sensibile che educa alla lettura. La cultura e l’educazione vengono presentate come strumenti fondamentali di recupero ed emancipazione nel caos del degrado.
E’ su questo che vorrei concludere: il ruolo “terapeutico” della scuola.
Nel film c’è una “necessità di scuola”, intesa come recupero della vivibilità, della cittadinanza e della solidarietà. Una scuola anche severa, che tratti i ragazzi a muso duro. Una scuola che dia simbolicamente “i suoi ceffoni” e “le sue pedate”. Una scuola dove bulli e balordi non abbiano la meglio. L’educatore del carcere è la figura positiva che ricrea il senso della legalità. Ristabilisce la centralità e l’autorità dello stato. Lo fa in modo ruvido, quasi crudele, con polso e decisione, prendendo per il bavero i ragazzi. E’ lui il vero riferimento. Ricorda don Lorenzo Milani che prendeva a calci nel sedere i suoi ragazzi, pur amandoli. Lo faceva per svegliarli, recuperarli e farli rigar dritto.
Lo avrete capito: non è questo un film didascalico e buonista. Eppure alcuni lo hanno detto. Anzi il film lascia aperte le questioni. E’ un implicito atto di accusa verso chi fa finta, verso chi accetta supinamente, verso chi vive nell’inerzia e nella comoda rassegnazione del “tutto è perduto”. E’ un film sulla fatica di vivere e di lottare, ma non sulla inutilità di vivere e di lottare. Negli anni della contestazione giovanile c’era uno slogan che spingeva a cambiare prospettiva: “Se non sei parte della soluzione, diventi parte del problema”. In “Marpiccolo” in tanti sembrano inghiottiti dal problema e non far parte della soluzione. Ma non è questo il senso del film che, invece, mostrando tutta la complessità del problema, ci spinge a scegliere di entrare a far parte della soluzione. Rompendo ogni comodo alibi.
Alessandro Marescotti
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