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La testimonianza

Quando il Maestro disse: siete oltre il neorealismo

Tre anni fa Monicelli ospite della manifestazione Nati a Taranto
3 dicembre 2010
Maristella Bagiolini
Fonte: Corriere del Giorno - 01 dicembre 2010

Tre anni fa, il 21 dicembre del 2007, conobbi Mario Monicelli.

Buona sera Maestro è un onore per noi – dicemmo accogliendolo nell’hall dell’Hotel
Europa.C’eravamo io e Monica Caradonna a quell’incontro. Lui ci strinse la mano, ci disse che voleva salutare l’amico Nichi Vendola e poi ci schivò di netto.

Subito capimmo che di tutte quelle cerimonie, lui, il Maestro, francamente se ne infischiava. Il Leone d’oro alla Carriera, il maestro del neorealismo, il regista di Amici Miei, La Grande Guerra o I soliti Ignoti era a Taranto, in realtà, per accompagnare
un suo grande amico, anche lui scomparso da poco: il fotografo e nostro conterraneo
Pino Settanni, che il progetto di “Nati a Taranto” aveva deciso di onorare con una personale al Castello Aragonese. Furono due giorni lunghissimi.

Perché Monicelli durante i tagli dei nastri e la consegna delle onorificenze in Comune
restò chiuso e cinico, esattamente così come lo descrivevano le sue biografie.
Fu davanti alla città vecchia, al cospetto di quell’ossessione mai risolta monumento alla nostra cattiva coscienza, a consegnarci la sua poesia. Il suo messaggio più autentico.

Lui che sapeva leggere tra le rughe degli italiani. Lui che qualche anno dopo ci avrebbe descritto come “pavidi, sempre pronti a chinare la testa di fronte al capo di turno”, ai tarantini consegnò la sua umanità più vera. Volle andare in via Duomo, nei vicoli dell’isola antica. Diceva “mostratemi i volti, fatemi vedere la Taranto che fatica, quella che soffre, quella vera”.

Così il tour, tranne una capatina al MArTà, fu tra la gente di Taranto. Ci chiese di Paolo VI, dei Tamburi, dell’ILVA e delle facce degli operai, quelli a cui lui aveva dedicato nel 1963 “I compagni”, il suo film del cuore. Il capolavoro che lo stesso Monicelli preferiva al più celebrato La Grande Guerra.

Che stronzi – disse – quelli che hanno ridotto la città vecchia in questo immondezzaio e che stronzi voi a stare zitti, a non fare niente.

Un pugno nello stomaco. E chi se lo sarebbe immaginato da un ometto che all’epoca aveva già 92 anni, problemi di salute varia e sembrava dovesse cadere da un momento all’altro per quanto era gracile e incerto su quel bastone.

Ma la tempra di Monicelli era uno sguardo disincantato sul mondo, uno sberleffo continuo a “chi se la credeva”, a quelli che lui chiamava “i padroni, i signori che si sentono potenti”.
Maristella – mi disse – ma i tarantini lo sanno che la loro città è bella? Mario Monicelli

La mia risposta fu prima un “Si!” convinto, poi un “credo di si”. Nella passeggiata tra i vicoli dell’isola quella convinzione si spense. Aveva ragione Monicelli.

Noi, che raccoglievamo in quegli anni i cocci della vergogna cui ci avevano sottoposto i tanti amministratori della città, la nostra terra la celebravamo nella memoria dei “distanti”, tra gli spalti dello Jacovone, nelle zingarate a ritmo di Raffo, nei giorni dei Riti, e… avast!

Io non voglio parlare con gli assessori, con i sindaci, con i presidenti. Non mi interessano neanche le TV e i giornali, vorrei sapere quanto costa comprare
uno di questi palazzi. Vorrei trasferirmi qui. Ma non vorrei essere visto. Vorrei guardare. Guardare e basta. – disse.

Taranto, in effetti, in quei giorni si fece guardare. Le autorità, tranne il Sindaco e gli assessori dell’epoca Pierri e Mignogna, disertarono largamente l’incontro con Mario Monicelli e la città come al solito non seppe dire “presente”.

Ma io ci provai lo stesso. Dissi : Maestro potreste girare un film su Taranto.

Mi guardò come fossi un extraterrestre e disse: “Voi tarantini
siete andati oltre il neorealismo. Siete eroi, ma non lo sapete!”

Ora è andato via come avrebbe voluto vivere a Taranto: senza essere visto, senza cerimonie o “potenti” genuflessi sul suo letto di morte.

Io continuo a sentire il suo bastone battere sulle pietre della mia città!

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