L'acqua del Sinni vada all'agricoltura
E’ in atto un altro braccio di ferro tra Regione Puglia e Ilva SpA in merito all’uso dell’acqua del Sinni.
Il problema viene da lontano: il progetto di sostituire nel Centro siderurgico l’acqua del Sinni con l’acqua affinata proveniente dall’impianto di depurazione Bellavista di Taranto stava andando in porto quasi una ventina di anni fa, quando la proprietà del siderurgico era pubblica e dichiarava di essere disponibile a farsi carico degli interessi della comunità. Sarebbe istruttivo, oggi, conoscere le vere ragioni che impedirono a quei tempi di realizzare il progetto, non tanto per indagare sull’ennesima “incompiuta” di questo territorio, quanto per sapere se le responsabilità del fallimento del progetto furono del “padrone pubblico” di Ilva, aduso anch’esso ad abusare di una certa posizione dominante pure nei confronti degli Enti Locali, oppure se a prevalere fu l’incartarsi di una burocrazia tentacolare, spesso in contrasto con il buon senso e con lo stesso bene pubblico che invece sarebbe suo compito tutelare ad ogni costo.
Tornando all’attualità, pare che il “padrone privato” di Ilva intenda, legittimamente, avvalersi di contratti tuttora in vigore e, quindi, non recedere dalla sua posizione di chiusura ad ogni trattativa per modificare lo statu quo anche a rischio di pagare un’addizionale sull’acqua prelevata dalla Basilicata rispetto a quella dovuta agli agricoltori e per l’uso potabile. Ricordiamo, però, che l’Ilva non perde occasione per ripetere, a parole, che assolve alla propria responsabilità sociale mentre, nei fatti, si comporta come se fosse padrona dell’acqua prelevata dai fiumi, dal mare, come dell’aria che respiriamo tutti e del sottosuolo presente nella sua area di pertinenza. Chiediamo, per l’interesse pubblico, che si trovi il modo di indurre Ilva al rispetto, nei fatti, del fine sociale dell’impresa fissato dalla Costituzione Italiana, che si ottenga, cioè, che l’azienda intervenga nei costi della gestione da parte AQP dell’impianto di depurazione garantendosi implicitamente la qualità di quelle acque. A Ilva è stato dato tempo 60 giorni per “accettare la proposta della Regione Puglia di utilizzare per scopi industriali le acque provenienti dall’impianto di depurazione Bellavista di Taranto, liberando così le acque del Sinni da destinare alla diga del Pappadai, in cambio di un contributo fisso per la gestione dell’impianto”. Si tratta di cifre che modificano sensibilmente il bilancio plurimiliardario dell’azienda? O la resistenza negativa di Ilva è solo un altro modo di ricordare agli Enti Pubblici, soprattutto in momenti delicati come questi, quanto “pesa” l’azienda e quanto “conta” in alto loco?
In caso di perdurante risposta negativa o di non risposta da parte dell’azienda entro la scadenza fissata, ci aspettiamo uno scatto di dignità da parte delle Amministrazioni Pubbliche, che chiudano d’imperio i contatori e i rubinetti dai quali Ilva attinge l’acqua del Sinni, anche a costo di innescare l’ennesima lite giudiziaria in cui Ilva metterà in campo i suoi collaudatissimi avvocati, maestri nel trovare appigli giuridici che consentano comunque l’esercizio degli impianti come vogliono loro. L’auspicio è che finisca il tempo dell’uso indiscriminato del nostro territorio. Chiediamo alle Istituzioni locali e regionali di tenere ferma la loro posizione in difesa degli interessi del territorio e della dignità dei cittadini che amministrano.
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