«Vogliamo salvare le cozze e il lavoro»
Le cozze si aggrappano alle boe di mar piccolo con antica disperazione. Sono seme senza scampo. In loro si rimescola la tragica storia d’acqua salata scritta col sangue di questa città, il suo DNA: dal bisso ai fusti tossici. Seme a rischio di estinzione. «Non tutti i mitilicoltori potranno trasferire il prodotto appena nato in mar grande, nelle aree individuate dalla Marina militare. Cosa faremo? Lo distruggeremo? Non è inquinato». La domanda fila via tra i galleggianti che scorrono, colorati e allegri, al nostro fianco. Un corteo, una festa mobile, mentre raggiungiamo gli impianti del primo seno di mar piccolo.Al riparo dall'inquinamento del pcb, il policlorurobifenile, cresceranno solo le cozze di dieci operatori autorizzati. La Marina militare ha srotolato le mappe davanti agli occhi dell’Amministrazione comunale e degli altri enti che fanno parte del «tavolo tecnico sulla mitilicoltura».
«Trenta cooperative sono escluse perché prive della concessione» ricorda Egidio D’Ippolito, presidente della Pemios, mentre incrociamo barche nel loro lento rientrare,: a poppa la scia luminosa del giorno e a prua briciole di pensieri dorati e soffusi, a fendere il pelo dell’acqua. Manca il posto in quel fazzoletto di mare individuato tra l’hotel Delfino e la rotonda (480mila metri quadrati circa). Non c’è, non ci sarà. Eppure cresce, come un soffio inarrestabile, il seme esposto al rischio di una nuova “strage degli innocenti”, una mattanza simile a quella delle «pecore alla diossina», razza estinta. Nelle acque fredde di un gennaio da fine del mondo. «Sì, per me finisce un mondo se andiamo via da mar piccolo».
Giovanni ha 74 anni e tanto sole rappreso nel tempo fra i solchi dalle rughe. «Quando eravamo ragazzi preparavamo le esche insieme alle nasse: dal pesce di legno alla seppia femmina. Un gioco. E i pesci accorrevano a centinaia». Sono mille le increspature disegnate dall'acqua dentro una mattina di occhi gialli e vento ghiacciato nelle ossa. «Lavoro da quarant’anni. Dalle cinque del mattino alle sette di sera. Le cozze crescevano vicino agli scarichi e poi venivano stabulate. Parliamoci chiaro: l’inquinamento industriale ha danneggiato l’allevamento. E dobbiamo ringraziare Iddio se c’è mar piccolo. Solo qui può essere piantato il seme. In mar grande era possibile fino a quindici anni fa. La captazione è stata rovinata dalle industrie».
La voce di Giovanni s’abbassa e si blocca, imita un gabbiano sospeso a mezz’aria. Si ferma, sola con i suoi pensieri; le sue rughe ora disegnano una carta geografica del tempo, mentre le ali dell’uccello bianco abbracciano spazi indefiniti, librandosi in arabaeschi puri e ribelli. «Non basterebbero libri per scrivere la nostra storia».
Giuseppe, sulla barca piantata in mezzo a mar piccolo, guarda dritto il cronista con occhi duri, severi e insieme strazianti nella loro dolcezza. Ha cinquantasei anni e le speranze suonano per lui come un guscio vuoto, lo stesso in cui Pier Paolo Pasolini soffiava il suo disprezzo verso l’uso della parola speranza da parte della politica.Pesa le parole, Giuseppe, con la bilancia di un dialetto duro, chiuso nelle viscere del borgo di membra e parole antiche ormai scomparso. ormai dimenticato, fossile del dolore. «Sei mesi fa, per una notizia uscita sui giornali, siamo morti. Per la prima volta la politica è intervenuta nei problemi della mitilicoltura, cacciandoci da mar piccolo. È stato dichiarato l’inquinamento del primo seno. Noi non siamo stati regolarizzati, siamo abusivi. Però le cozze che produciamo le fatturiamo. Ma di chi è la colpa? Chi non ha risposto quando chiedevamo l’autorizzazione? quando dal 1983 la mitilicoltura è tornata a fiorire in mar piccolo e in tanti hanno smesso di rubare le autoradio, scippare, fare i delinquenti, cercando di mettere la testa a posto, di mantenere la famiglia con un lavoro onesto?».
Il lavoro, una dannazione. In città vecchia una doppia maledizione. Perché rimane pena ingiusta quella del mare negato. Taranto lo ha negato a se stessa per propria colpa, senza rimpianti. E ora a difenderlo, a difenderne i frutti offesi dalla Storia e dallo Stato, si rischia l’accusa di «brigantaggio ». Morte e passione. Giuseppe impugna ‘u fuerce quasi in un tentativo di estrema difesa dal «genocidio » di una Taranto ormai dissolta: «È un remo - spiega - serve per la navigazione, per avvicinare le barche tra loro». Ma nelle sue mani sembra, di colpo, un crocifisso bianco, l’osso di un animale estinto milioni di anni fa, il sigillo di una pena eterna da scontare. Il crocifisso nel pugno di un morto, non la stretta terra dei versi di Bukowski, ma il mare nella sua sconsolata declinazione di verso monco, sezionato, strappato come le reti che i cozzaruli si affannano a riciclare «perché non ci sono più soldi. Potremmo far crescere l’economia della città, dare posti di lavoro. E invece, invece...». Invece il cruccio delle regole sembra aver rovesciato il cielo. Così quel «brigantaggio» viene ripudiato da chi vuole onestamente continuare la propria esistenza dignitosa.
«Nostra e dei nostri figli. Noi le regole le vogliamo. Noi non facciamo i briganti. O ci vogliono trasformare in qualcos’altro? Cosa ne faranno del mar piccolo? rispondano...» dice un giovane pescatore dal corpo snello come i giunchi di scoglio, la barba ispida di pruno selvatico e lo sguardo di un Cristo appena sceso dal Calvario. Le case dell’Isola, accese da un effimero raggio di luce, sembrano fremere al vento. Il mare di gennaio fa il resto nel suo indicibile azzurro. «D’estate c’era l’inquinamento. Ora non ci sarebbe. Chiedo all’Asl - chiude Egidio D’Ippolito - un monitoraggio in continuo dell’inquinamento. Come si chiede all’Ilva». Lo si deve, se non altro, a quel seme che non potrà nascere. E che si porta dentro, come un figlio, la storia di Taranto. Quel canto, negato, di libertà.
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