Taranto, ucciso dal cancro chiede ai figli: «Mettete una targa per ricordarci»
La targa non ha nome. Qualcuno è morto lì in via De Vincentis al quartiere Tamburi. Qualcuno è morto, direbbe il viandante. Ma chi passeggia lì, a un palmo dalle ciminiere?
La targa non ha nome. Il morto è morto di «cancro al polmone» l’8 marzo. A raccontarcelo tre donne, le sue donne, con lucida emozione e senza retorica: la moglie Graziella, le figlie Sabrina e Stefania. Peppino Corisi non lasciava nulla al caso.
Ha chiesto e ottenuto una «targa», Peppino Corisi, lapide a futura memoria. L’ha chiesta alla figlia Sabrina con un filo di voce, nelle notti interminabili sulla sedia a sdraio, quando stare a letto voleva dire soffocare: «Mettetela sotto il balcone, la gente deve sapere». La gente saprà. «Io ho lottato, non ce l’ho fatta. Bacia tutti, uno per uno». Trent’anni all’Ilva, Peppino Corisi. Operaio. È morto da invisibile. «L’ennesimo». Quanti prima di lui? E quanti dopo?
Perciò la targa recita: «Ennesimo». «Ennesimo decesso per neoplasia polmonare». La enne di ennesimo ricorda i senza nome. Tutti. Peppino Corisi non lasciava nulla al caso.
Ennesimo, un numero indefinito. Si può solo raccontare, come questi palazzi ruggine dove la poesia dei Tamburi, polmone verde della città negli anni ‘50, è morta da un pezzo e da un pezzo rivive nella mutata, nuova, forma del dolore e della morte che giocano a rincorrere la vita fra dissonanze. E dissolvenze.
Ennesimo, un numero indefinito. Si può solo raccontare come fa Graziella «di due colleghi di Peppino colpiti dal tumore alla vescica. Mio marito lo ebbe qualche anno fa. Dovevamo capire allora, dovevamo capire tutto». Oppure pensare alla bambina «colpita da leucemia», ricorda una delle due figlie di Peppino, a meno di cento passi dalla loro abitazione.
Ennesimo. Perché Peppino Corisi non lasciava nulla al caso. E quell’ennesimo stava a significare, stava a ricordare, «che, come lui diceva, a Taranto non esiste ancora il registro tumori. Avrebbe voluto mettercelo il numero, quel numero» rammenta la figlia Sabrina, la voce ferma, gli occhi velati d’asciutta malinconia. Indossa qualcosa di nero che somiglia a un lutto coraggioso, perché ornato di parole senza lacrime.
Pure lo schizzo della statuetta alla Madonna aveva abbozzato Peppino, sul muro grigio polvere del terrazzo in via De Vincentis al quartiere Tamburi. Quello schizzo era diventato edicola votiva «e ogni anno a maggio - rammenta Graziella - si festeggiava». Peppino Corisi non lasciava nulla al caso. Era comunista, era operaio. L’ennesimo.
L’ennesimo caduto. La falce e il martello in soffitta, anzi, dal ferrivecchi, quando, agli inizi degli anni 2000, capì che forse qualcuno era stato comunista un tempo, difendeva la fabbrica, ma che era arrivato il momento di difenderla pensando, però, alla salute e all’ambiente. Così Peppino si mise in marcia. Così Peppino, consigliere circoscrizionale, chiamò i giornalisti e mostrò loro il suo terrazzo in una remota domenica di sole.
Il terrazzo della polvere. Della pala per spalare la polvere di minerale. Ancora lì, quella pala, il genero di Peppino la solleva con delicatezza, nella pancia della balena che è il sottotetto. Una balena nera e buia, una balena spiaggiata sul terrazzo. Il terrazzo della balena nera. Nera come una miniera.
«Noi siamo d’accordo con gli operai che manifestano, il lavoro va rispettato» spiega Sabrina. Noi non diciamo: chiudete l’Ilva. Anche papà non lo diceva. Ci deve essere, piuttosto, il rispetto del lavoro e dell’ambiente. Mio padre aveva 64 anni. E se quel tumore lo avesse avuto un bambino?». Il pensiero corre al comunista che volle la statua della Madonna proprio lì. Peppino Corisi non lasciava nulla al caso.
Sul terrazzo, salendo dall’appartamento con salotto operaio e una vita di sacrifici, Peppino Corisi ingaggiava da anni la sua lotta contro la polvere di minerale. La stessa polvere che senti bruciare in gola e che impasta le parole. Parole nere, sulla lingua; rosa sulle lapidi a futura memoria: «Nei giorni di vento nord nord-ovest», sembra quasi l’introduzione a uno di quei «Racconti ammutinati» stile Wu Ming, in cui si parla del rum e del diavolo che vi si infila di soppiatto.
Peppino Corisi sapeva bene, invece, che, ai Tamburi, il diavolo s’infila nella polvere. E così pensò a una targa da affiggere su uno dei muri ruggine scrostati. E pensò, insieme ad altri, perché diceva che «l’inquinamento si vince restando uniti».
Pensò che fosse giusto scrivere, su quella targa, dei giorni di vento, della polvere che seppellisce i cittadini delle vie De Vincentis, Lisippo, Troilo e Savino, del gas che soffoca, specie in estate, della zona industriale, della maledizione lanciata contro «coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare». Già, riparare, come aggiustare, risanare, bonificare perché no?, e, insieme, nella stessa cavità della parola, mettersi al riparo, trovare un rifugio per scampare a una sciagura: il tremendo anatema civile scagliato dai cittadini dei Tamburi che avrebbe dovuto scuotere anzitempo le coscienze e che solo nella città indifferente e altra, indifferente e altra da tutto, di là dal ponte, nei Palazzi, sembra rimanere in larga parte lettera morta o ambiguo gioco di parole.
L’ex operaio dell’Ilva, trent’anni in fabbrica, aveva immaginato tutto: «Prima o poi capiterà anche a me» aveva detto a Sabrina e Stefania. Per questo non perdeva tempo, per questo guardava ai giovani come testimoni cui affidare la battaglia per un ambiente migliore. Senza retorica.
Il suo testamento, qualche giorno prima della morte, rimane nelle parole offerte al nipote Angelo. Undici anni, Angelo frequenta la scuola media e ha scritto del nonno malato nel compito in classe. Peppino Corisi gli diceva: «Il nonno ha combattuto, ma non ce l’ha fatta». Un sottaciuto «ora tocca a voi, ragazzi», perché ai Tamburi non serve fare proclami quando devi tingere le facciate dei palazzi color ruggine per allontanare il dolore.
È grande l’archivio di videocassette conservate in casa da Peppino Corisi. I problemi del quartiere. L’inquinamento, certo; i disagi sempre più crescenti e pressanti delle alluvioni. Peppino non lasciava nulla al caso e sembra vivere attraverso queste testimonianze.
«Non avrebbe sopportato una lunga malattia» dicono quasi sottovoce le figlie con quel lutto che rimanda alle parole dei manifesti funebri affissi dagli amici di Peppino: l’associazione “Tamburi 9 Luglio 1960” e la sezione “Giancarlo Pajetta” di Rifondazione comunista. «Con unità continueremo la tua battaglia». Qualcuno era comunista, qualcuno resta. Peppino è andato via in pochi giorni. Di lui rimane qualche piantina su quel famoso terrazzo «e la voglia che aveva» spiega Sabrina «di pranzare proprio lì, sul terrazzo, le domeniche d’estate, quando il caldo non dava tregua».
«Non andremo via» conclude la figlia di Peppino. E si resiste così, soprattutto così. «Non andremo via perché svendere e poi trovare casa a cifre esorbitanti... non possiamo farlo».
Nel piccolo recinto di via De Vincentis la statuetta della Madonna apre le braccia e, cinta da un Rosario, benedice il viandante. Fu posta il 15 maggio del 2004, ha sempre fiori freschi: orchidee, rose bianche e rosse. La ruggine si è posata qua e là sulla teca color rosa come piccoli sbuffi del tempo. Ricordo e presagio.
Peppino Corisi non lasciava nulla al caso.
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