Altamarea sulla drammatica tempesta in corso su Taranto
Sulla stampa sono riportate inaccettabili dichiarazioni del Direttore Generale di ARPA Puglia prof. Giorgio Assennato e del Direttore del Dipartimento di prevenzione di ASL/TA dr. Michele Conversano che vorrebbero prendere le distanze dall’intervento di Alessandro Marescotti durante la tavola rotonda conclusiva del Convegno organizzato da ASSOARPA, Università di Bari, ecc.
Alessandro Marescotti in quella sede rappresentava Altamarea e Altamarea respinge con sdegno che a un proprio membro vengano indirizzate ingiurie quali: “ Sono allibito; sono stati tirati fuori miei (sic!) dati in maniera distorta; è una catena di disinformazione, un’associazione per delinquere, uno schifo”, frase virgolettata di G. Assennato; “E’ sicuramente anomalo e scorretto che questo studio non discusso tra gli autori sia diventato qualcosa di centrale a conclusione di due giorni di confronto in cui esperti di livello internazionale hanno discusso l’importanza di studi epidemiologici e di biomonitoraggio, ma anche dei loro limiti ed incertezze”, frase virgolettata di M. Conversano.
Alessandro Marescotti ha presentato numeri e fatti già pubblicati, con nomi e cognomi degli autori.
I due direttori, silenti durante e dopo l’intervento di Marescotti, dovrebbero spiegare all’opinione pubblica tarantina, da anni fortemente preoccupata, perché hanno riservato solo al consesso di Oxford nel 2011 la conoscenza immediata di quei dati? Assennato, sprezzantemente, definisce Alessandro Marescotti “un insegnante di lettere di un liceo tarantino”, dimenticando che è quello stesso “insegnante di lettere”, e non autorevoli esperti, che ha fatto conoscere ai tarantini la diossina ed ha mostrato loro il “formaggio alla diossina”. In Alessandro Marescotti, ancor più incoraggiato dalla pediatra Annamaria Moschetti, ha prevalso l’afflato del genitore e soprattutto dell’educatore che dà conto del suo operato solo alla propria coscienza, rispetto agli equilibrismi a cui è soggetto chi dà conto soprattutto ai referenti istituzionali e politici.
Quanto alla gazzarra messa in scena in diretta durante il convegno da alcuni “autoconvocati dipendenti Ilva”, è bene sottolineare che Altamarea e Marescotti sono sempre stati dalla parte dei lavoratori anche se non sono riusciti a colloquiare con essi per fare fronte comune.
Rispetto alla drammatica tempesta che si è abbattuta su Taranto a seguito dei provvedimenti cautelari della Magistratura, non è fuor di luogo ripetere che Altamarea non è stata mai dalla parte di chi “vuole chiudere tutto e subito, senza se e senza ma”. E’ sottinteso che molti dei suoi membri, che hanno conosciuto da dentro il siderurgico di Taranto, ritengono che anche chiudere la sola area a caldo equivalga a chiudere tutto. Sulla “chiusura” Altamarea cambierà idea solo se proprietà di Ilva e Stato dimostreranno, anche in questa circostanza, di essere incapaci di neutralizzare, in un decente lasso di tempo, l’inquinamento, incapaci non perché non ci sono soluzioni tecniche ma perché non c’è né la volontà, né i soldi che servono per mettere veramente a posto scarichi a mare, agglomerazione, acciaierie, parchi primari e soprattutto cokeria (delocalizzazione). Sono tutte cose che Altamarea ha scritto e detto in ogni occasione pubblica locale e nazionale.
Chi deve tirare fuori la montagna di quattrini che servono per fare tutte queste cose? Da anni, regolarmente inascoltata, Altamarea sostiene che sulla “questione Ilva Taranto” lo Stato non si può chiamare fuori abbandonando il destino dei tarantini nelle mani di Riva. Il maggiore responsabile del disastro ambientale di Taranto è lo Stato. Esso ha progettato e costruito male lo stabilimento siderurgico, per giunta finanziato a tassi di interesse pesantissimi, e lo ha gestito altrettanto male per una quarantina di anni. Lo Stato si è sbarazzato di Ilva Taranto quando le questioni ambientali cominciavano a diventare veramente pesanti perché regolamentate da norme stringenti e tutto questo si accompagnava a condizioni economico-finanziarie ormai assolutamente insostenibili. Con quella privatizzazione lo Stato ha messo, consapevolmente, la formidabile arma del “ricatto occupazionale” nelle mani dell’imprenditore privato che all’epoca l’ha tolto dagli impicci e che si muove andando dietro solo ai suoi legittimi interessi economici.
Non si può non capire che il compromesso con lo Stato (cioè la compartecipazione alle spese per il risanamento ambientale) può nascere solo di fronte a una fortissima pressione sociale o di fronte a fatti ineludibili come quelli giudiziari. La pressione sociale di Altamarea sul benzo(a)pirene nel 2009 e 2010 sembrava vincente ma fu stoppata dal decreto legislativo “salva azienda” di ferragosto 2010. Per quattro anni Altamarea ha lavorato puntando sull’AIA che invece è stata concessa senza nessuno dei suoi “10 punti irrinunciabili”. L’AIA rilasciata ad agosto 2011 conteneva anche “bugie” clamorose, avallate dal Ministero dell’ambiente. La durata dell’AIA viene fissata in 6 anni anziché 5 perché Ilva ha presentato un Certificato relativo al sistema di gestione ambientale adottato che, però, non riguarda l’area a caldo che è quella che inquina (ACCREDIA, l’ente pubblico che accredita i “Certificatori”, ha comunicato la propria impossibilità a intervenire direttamente per una di quelle ambiguità normative che fanno la felicità degli avvocati). C’è un’altra “bugia” ancora più clamorosa: la capacità produttiva di Ilva Taranto è fissata a 15 milioni di tonn/anno senza motivazioni ragionevoli, mentre nella delibera CIPE n. 40 del 1970 – Programma IRI 1971/197 è scritto: “….. il CIPE approva il programma dell’IRI relativo all’ampliamento del Centro Siderurgico di Taranto fino a 10,3 milioni t/a.“ La capacità produttiva di un centro siderurgico a ciclo integrale è fissata dagli altiforni e dalle acciaierie che oggi sono ancora quelli del “raddoppio”.
Altamarea ha chiesto al nuovo Ministro dell’ambiente di “ritirare in autotutela” l’AIA di Ilva, che è l'unica mossa che può bloccare ogni iniziativa giurisdizionale degli avvocati di Ilva (finora le hanno vinte tutte) e tenere l'Ilva “sotto schiaffo” inducendola a presentare sul serio un piano industriale di riconversione, ristrutturazione. Sul piano industriale qualcuno di Altamarea ha avuto l’ardire (Lettera aperta al Presidente Monti ed altri del 16 luglio 2012) di dare alcuni spunti non completamente campati in aria: a) conversione impiantistica per la produzione di acciaio non da ghisa di altoforno; b) ridimensionamento della laminazione; c) diversificazione nel campo della logistica integrata portuale (Ilva ha in concessione un pontile che già oggi consentirebbe l’attracco di portacontainer di ultima generazione); d) rientro alla grande nel business del rottame, da dove Riva ha preso il volo, puntando al decommissioning (rottamazione) in campo navale, aereo e automobilistico con riutilizzo immediato del rottame di ferro nel proprio stabilimento “convertito”.
Ovviamente il piano industriale per lo stabilimento “convertito” dovrebbe recepire anche: I) limiti agli sforamenti istantanei in periodi di tempo ragionevolmente corti e sanitariamente tollerabili; II) il superamento delle MTD, il tutto rafforzato da inequivocabili elementi sanitari, con la teoria di “quel che è stato è stato, ma ora basta”; III) un serio CPI in tempi brevi; IV) la revisione del nulla osta inerente l’analisi di rischio di incidente rilevante.
Per convincere il Governo ad intervenire nel senso suindicato ottenendo anche il benestare della Commissione europea (che non sempre nega gli aiuti di Stato ai privati) Altamarea ritiene necessaria ed auspicabile l’alleanza dei cittadini con i lavoratori e con i loro sindacati.
Non si sa come le cose evolveranno, ma ai più anziani vengono in mente, con grande preoccupazione, i fatti di Reggio Calabria con Ciccio Franco (luglio 1970) e di Scanzano Ionica (luglio 2008).
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