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Intervista ad Alessandro Marescotti su Il Tacco d'Italia

Marescotti, "Taranto, una città compromessa dove si nega la realtà"

Il punto sulla situazione. Quali futuri? Cosa manca alla politica ambientale italiana?
27 gennaio 2013
Fonte: Inchiesta de Il Tacco d'Italia - http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=23142

Il 2013 porta nuove preoccupazioni al territorio tarantino e al Salento. L'anno appena trascorso ha gettato la città dei due Mari e i suoi abitanti in un vortice di avvenimenti che scuote tuttora Taranto e il suo siderurgico. Tra Magistratura, decreti, cassa integrazione e una lunga contesa tra Ilva e Procura sui prodotti finiti sequestrati, cerchiamo oggi di fare chiarezza su alcuni fatti e scenari futuri insieme ad Alessandro Marescotti, presidente dell'associazione PeaceLink.

Andiamo per ordine: il decreto "Salva-Ilva", approvato in Parlamento in tempi record lo scorso 20 dicembre, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 3 gennaio. Già prima che iniziasse la sua discussione si erano originati forti dubbi di incostituzionalità, sia tra i cittadini che nel mondo accademico. Ora la Procura ha sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Il Ministro uscente Corrado Clini lo ha definito un "provvedimento chiave per lo sviluppo sostenibile", "l'equilibrio tra industria, ambiente e salute". Perché allora lo scorso 15 dicembre almeno 15.000 persone in piazza a Taranto lo hanno definito "Ammazza-Taranto"?
"Perché la Procura della Repubblica aveva commissionato due perizie, una chimica ed una epidemiologica, discusse all'interno dell'incidente probatorio a cui potevano partecipare anche gli esperti dell'Ilva e acclarando che gli impianti sono dannosi per la salute e per l'ambiente. Di fronte a questo pericolo sanitario era obbligatorio per la Procura prendere un provvedimento, perché in una situazione simile si agisce sulla base dell'urgenza, non in maniera facoltativa. Ora, un decreto non può annullare un pericolo. E' come se si individuasse un male in una persona e poi per decreto si trasforma la persona malata in una sana, senza guarirla. Si fa un'operazione di negazione della realtà attraverso la Legge, in maniera scorretta e pericolosa. Nella realtà poi il pericolo permane. Per questo è ‘Ammazza-Taranto'".

Ad oggi questo decreto rimette in moto la produzione dell'Ilva per altri 36 mesi. Tuttavia c'è una congiuntura economica che non è delle più rosee. Nel 2011 il Gruppo Riva ha prodotto, tra tutti i suoi stabilimenti, 16 milioni di tonnellate d'acciaio, più della metà li ha prodotti a Taranto. Adesso però, per adempiere alle prescrizioni dell'AIA, l'Ilva deve sostenere da subito, e per i prossimi mesi, ingenti spese. Poi ci sono stati i tornado che si sono abbattuti a novembre sullo stabilimento e i provvedimenti giudiziari dell'ultimo anno. Sempre a novembre la Procura ha sequestrato i prodotti finiti successivi al sequestro del 26 luglio per un valore di circa un miliardo di euro. Si sono già materializzate così circa 2.500 casse integrazione per gli operai e rimangono i dubbi sul prossimo piano industriale e su altri nuovi ricorsi alla Cig. Sappiamo che nel 2011 il Gruppo aveva un'esposizione finanziaria complessiva che superava i 2 miliardi di euro e che ci sono anche grossi gruppi bancari esposti come Intesa San Paolo. Che futuri si prevedono per i lavoratori e per l'azienda?
"Il futuro è molto incerto, perché Ilva ha una situazione di forte esposizione al sistema bancario. Il che la rende molto precaria. La chiave del successo di un gruppo così importante, parliamo del primo colosso siderurgico europeo, sta nel fatto che produce un'enorme quantità di materiale ma ha bisogno di un'enorme quantità di denaro per poter acquistare le materie prime e gestire un intero ciclo. Non è un caso che il materiale sequestrato ammonta circa a un miliardo di euro per 4 mesi di produzione. Un miliardo di euro vale gli stipendi di due anni dei lavoratori. È quindi fondamentale per Ilva avere un appoggio sul sistema creditizio che la finanzi generosamente perché sa che i volumi commerciali sono molto sostenuti. Se si inceppa questo sistema, se ci sono difficoltà di accesso al credito, si inceppa lo stabilimento. E in una situazione di grande incertezza come quella attuale, questi problemi possono sorgere. Non credo che le banche elargiscano prestiti se sanno che l'azienda in futuro deve sostenere cospicui investimenti in campo ambientale che ne riducono i profitti, se sanno che potrebbe dover far fronte a risarcimenti per le vicende passate e presenti e se sanno che dovrebbe bonificare i terreni. Sono tutti elementi di incertezza che si sommano ai sequestri della Magistratura. E se in futuro il decreto risultasse incostituzionale c'è un altro elemento di incertezza, sufficiente per creare altri dubbi tra le banche".

Dopo le due perizie della Magistratura, una chimica ed una epidemiologica, c'è stato il riesame dell'Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciato lo scorso 16 ottobre e la legge 231 ("Salva-Ilva") a dicembre. Questi ultimi provvedimenti risolvono i problemi? Ha ragione il Ministro Clini a dire che si sta trovando l'equilibrio tra industria, ambiente e salute?
"Voglio precisare una cosa a proposito delle perizie: la Procura della Repubblica non ha dato prescrizioni, su questo si è creata una leggenda a cui hanno dato credito diversi esperti e anche lo stesso Clini. Gli esperti della Procura non hanno scritto un'AIA, hanno fatto una perizia che dimostra l'insalubrità degli impianti e il loro notevole discostamento dalle migliori tecnologie disponibili (BAT). Questa comparazione è stata scambiata per una prescrizione ma non lo è. Viene invece dimostrato che tutto quello che è stato autorizzato con l'aia del 2011 non è il ‘miglior rendimento' in campo ambientale.
PeaceLink ha studiato con grandissima attenzione l'AIA del 2012, essa è strutturata in maniera tale da non poter fare un raffronto sistematico con le tabelle presenti nella perizia chimica della Magistratura. Le unità di misura e i sistemi di raffronto sono tali per cui non si riesce a confrontare cosa si stia autorizzando ora e quale sarebbe la migliore tecnologia di riferimento indicata nelle perizie. Hanno scelto deliberatamente di fare prescrizioni che non ci consentono di verificare se gli standard emissivi autorizzati soddisfino o meno i livelli delle perizie. Non è specificato, da quello che si apprende, se gli impianti che vengono autorizzati sono impianti rifatti ex novo, quindi nuove unità di produzione oppure se sono rifacimenti, ammodernamenti degli impianti già esistenti".

Il parlamento europeo ha recentemente ribadito il principio del "chi inquina paga", ribadendo la necessità del recupero ambientale del sito. Avevamo scritto che PeaceLink ha provato a fare un stima dei primi costi. Entrando nello specifico, di sicuro sappiamo che c'è tanto da bonificare e da ammodernare. Quali sono le cifre necessarie?
"Noi abbiamo fatto una stima per gli interventi sugli impianti, non per la bonifica, e per l'ammodernamento stimiamo un costo di 3-4 miliardi di euro. Per quanto riguarda la bonifica del terreno e della falda siamo nel regno dell'assoluta incertezza. Una cosa è bonificare un terreno ad un raggio di 3 km dall'Ilva, altra cosa è arrivare a 10. La perimetrazione del terreno che va sostituito è un'operazione notevole. Poi c'è la messa in sicurezza d'emergenza di 15 kmq di sottosuolo con dei barrieramenti fisici, che è un operazione gigantesca come una metropolitana, e ci vorrebbero almeno altri 5 miliardi di euro, questo guardando l'esempio di Porto Marghera. Tutto dipende da quello che si vuole fare. Le messe in sicurezza non sono bonifiche, sono tamponi che si mettono al danno già fatto per non dover avere un terreno ancora più grande da bonificare un domani. Dopo la messa in sicurezza d'emergenza delle fondamenta della fabbrica, le operazioni da fare potrebbero essere due, o una messa in sicurezza permanente, una sorta di 'sarcofago', oppure una bonifica vera e propria che estrae il terreno contaminato e lo sostituisce.
Il danno si propaga per la semplice inerzia di enti pubblici e aziende che non intervengono. E non dimentichiamoci il primo seno del Mar Piccolo. Un domani tutti i costi d'intervento possono essere recuperati se quella immensa area viene ridestinata ad uno sviluppo alternativo, ad esempio impiantandoci sopra una centrale di produzione di energia solare. Richiederebbe grandi spazi ma ha buone prospettive di sviluppo, soprattutto quando un giorno sarà raggiunta la cosiddetta ‘Grid Parity' ovvero la parità tra il costo di un kilowattora prodotto con il fotovoltaico rispetto ad uno prodotto con combustibile fossile".

Più si tarda nel fare le cose e più gravi sono i danni. Dal punto di vista sanitario ci si è resi conto che più si è tardato nel fare le mappature epidemiologiche e prevenire e più ci si è ritrovati letteralmente a "contare i morti". Nel consiglio comunale leccese monotematico dello scorso 21 dicembre è stato presentato dall'Arpa il Rapporto Registro Tumori Puglia 2012. Oltre a confermare i tristi dati tarantini, il rapporto evidenzia un triangolo di incidenze preoccupante che comprende anche le province di Brindisi e soprattutto di Lecce. Perché l'epidemiologia, in aree ormai da anni definite "ad elevato rischio ambientale", ha avuto così tanti ritardi nel diventare parte degli "attrezzi" di programmazione delle politiche pubbliche?
"La politica di chi ha governato ha preferito non avere dei dati che l'avrebbero costretta ad intervenire drasticamente. La Regione Puglia avrebbe potuto, spendendo la stessa cifra spesa dalla Procura di Taranto, dare incarico a tre esperti per fare la stessa perizia e avere gli stessi risultati. Diventava poi compito del potere politico-amministrativo trarne le conclusioni e fare quello che ora ha fatto la Procura. Ma mentre la Procura lo ha fatto per obbligo di legge, per la politica era più difficile perché doveva agire anche sulla base del consenso. Le intercettazioni emerse in questi mesi, poi, hanno dimostrato che non c'era la volontà di alzare il tappeto e scoprire che sotto c'erano gli scheletri".

Oltre ai dati di incidenza nel Leccese, i più alti di tutto il sud della Puglia, i dati epidemiologici della zona di Brindisi non sono dei migliori. Anche a Cerano, sede della centrale termoelettrica Federico II, ci sono già da tempo ordinanze che vietano la coltivazione dei campi e c'è preoccupazione. Si è recentemente aperto un processo nei confronti di 13 dirigenti Enel e due imprenditori, responsabili, secondo la magistratura, di dispersione di polvere di carbone nei campi circostanti al nastro trasportatore della centrale Federico II di Cerano. Possiamo immaginare, purtroppo, l'evolversi di una vicenda simile a quella tarantina?
"Sarebbe necessario condurre delle ricerche con la stessa metodologia. Un'attività di quel genere può aver prodotto dei danni. Di sicuro sappiamo che l'Unione Europea con l'Agenzia Europea per l'Ambiente ha già condotto degli studi che quantificano la presenza di costi esterni dovuti alle attività industriali che sono notevoli per la zona di Cerano e non solo. Suppongo che questi notevoli costi possono essere anche di tipo sanitario oltre che ambientale".

L'Ilva è un caso emblematico del nostro Paese, poteri dello Stato che arrivano a scontrarsi, provvedimenti di varia natura dettati dall'emergenza, una politica per l'ambiente che non agisce a 360 gradi. Che cosa manca oggi alla politica ambientale italiana?
"Manca la visione strategica. Ad esempio, guardiamo la Germania, dove si è saputo investire su un futuro sostenibile. Sviluppo sostenibile, non solo da un punto di vista ambientale ma anche economico. In Italia manca quella visione, quando si parla di sviluppo sostenibile si pensa spesso ad una sorta di carità che viene fatta all'ambiente, invece stiamo parlando di uno sviluppo che garantisce anche la sostenibilità economica. A Taranto, oggi, per risanare si spende molto più di quanto si sarebbe speso per prevenire. Lo dimostrano i costi eclatanti delle bonifiche.
In Germania la scoperta delle diossine nelle acciaierie risale all'inizio degli anni '90. Dopo la scoperta, nel giro di due anni si è risolto il problema, in un anno lo si è studiato e in un anno si sono implementate le tecnologie. Già nel '93 si stava raggiungendo il livello di 0,1 nanogrammo a metro cubo e lì si era partiti da livelli di emissioni simili a quello di Taranto. Tutto questo senza la pressione delle associazioni ambientaliste, semplicemente perché lo Stato ha voluto risolvere quanto prima il problema. In Italia si è fatto l'esatto contrario: le leggi hanno portato i livelli di diossina consentiti a livelli altissimi e ancora oggi siamo in attesa di raggiungere gli standard del resto d'Europa. Nel frattempo si è inquinato il territorio e compromessa la salute. In altri Stati invece si è evitato di condurre l'economia locale nel tunnel in cui si trova ora l'economia tarantina.
Ultimo esempio. L'Olanda ha gli standard più restrittivi per quanto riguarda la diossina nel terreno; oggi è una nazione leader nel campo agricolo e i suoi prodotti sono verosimilmente tra i più sicuri. In Italia, invece, abbiamo una normativa nazionale che consente livelli di diossine dieci volte superiori ai limiti olandesi, abbiamo terreni da pascolo e produzione agricola dove i limiti sono talmente alti che situazioni come quella tarantina si possono trovare anche in altre regioni.
Per anni si è detto che l'acciaio è un settore strategico, non è vero. Può esserlo l'agroalimentare, perché se hai un settore che garantisca prima di tutto la sicurezza sanitaria allora hai un settore che utilizza il territorio senza comprometterlo, tutelandolo. É strategico perché quel territorio puoi continuare a utilizzarlo anche tra 10, 100, 200 anni. Taranto oggi è una città compromessa, l'aver difeso qualcosa di ‘strategico' ha portato ad avere un terreno dove non si può fare quasi più nulla.
Un settore è strategico solo quando garantisce il futuro.

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