Dalla Norvegia uno studio su Taranto: ‘Disastro'
Ad ottobre e dicembre scorso, il Ministero della Salute prima e l'Arpa Puglia poi, hanno reso noto quello che accade negli ultimi anni alla salute dei cittadini tarantini e pugliesi. Infatti, sono stati pubblicati i dati che mostrano il grave aumento delle incidenze, alcune delle quali ricollegabili direttamente all'inquinamento industriale, e delle morti per neoplasie di vario tipo tra gli abitanti delle province di Taranto, Brindisi e Lecce. (Una scheda che fotografa questa triste realtà si può leggere qui).
Bruna De Marchi, del Centro delle scienze e discipline umanistiche dell'Università di Bergen (in Norvegia), ha recentemente pubblicato sulla rivista "Epidemiologia & Prevenzione" uno studio che si interroga criticamente sulle necessità di ricerca e prevenzione epidemiologica che dovrebbero partire da subito a Taranto e che, viste le cifre che riportiamo puntualmente nella scheda, potrebbero essere utili anche nel leccese e nel brindisino. Dato che il ritardo nell'uso di questi strumenti si è ormai consolidato, è ora cruciale capire come farli partire.
Se il termine più appropriato per definire le vicende dell'Ilva è la parola "disastro", allora secondo la De Marchi i danni che oggi si vedono non sono il vero disastro ma "la manifestazione conclamata che un disastro strisciante si è perpetuato (e perpetrato) per decenni". Si tratta di danni che non risultano da un evento o da una causa singola, bensì dalla concreta "conseguenza di una mancata volontà di affrontare le questioni della produzione e del lavoro nel loro contesto e con una visione temporale di lungo periodo".
Proprio a proposito della visione e del contesto, lo studio sottolinea che la particolare "vulnerabilità sociale" di un determinato territorio condiziona la risposta che quel territorio fornirà alle minacce ed agli eventi esterni. Che cos'è questa vulnerabilità? Un esempio: così come un edificio risponde ad un terremoto non solo in base all'intensità della scossa ma anche in base alle caratteristiche della sua struttura, così un "sistema umano" risponde agli eventi a seconda delle sue dotazioni iniziali sia materiali che immateriali. Tra quelle immateriali ci sono: 1) la conoscenza delle fonti di pericolo, 2) la fiducia su chi è istituzionalmente preposto ad occuparsi dell'emergenza, 3) la coesione interna della comunità e la sua capacità di attrarre attenzione e risorse esterne.
Per non ripetere sempre gli stessi errori ed accumulare disastri su disastri la studiosa dell'Università norvegese si sofferma su un efficace paragone con il caso del terremoto de L'Aquila del 2009 dove le popolazioni colpite sono "rimaste estranee alle decisioni calate dall'alto" dai vari decisori. Le case provvisorie, le cosiddette new town, "dove la gente abita, ma non vive" rappresentano così il secondo disastro, di matrice umana, oltre al danno naturale del terremoto.
La sfida di Taranto, ora, è proprio quella di non cadere in queste risposte preconfezionate nel cercare una soluzione alla crisi ambientale che sta attraversando.
Alle indagini fatte finora, quindi, ne vanno aggiunte di nuove che puntino a difendere ambiente e persone esposte. Le misure più efficaci "possono e devono essere identificate anche sulla base di una conoscenza approfondita dei modi di vita locali, non si deve solo chiedere ai cittadini di accettare le misure degli esperti, bensì di contribuire a costruirle", bisogna coinvolgere e guardare anche alle aspettative e ai bisogni che gli abitanti hanno. Non solo conoscenze scientifiche quindi, ma anche un sano coinvolgimento della comunità locale in un "processo di ricerca e prevenzione integrato", civico, non "prefabbricato", una risorsa comune che porti le popolazioni locali nei processi decisionali.
Taranto non è un caso isolato né in Italia né tanto meno in Puglia; a Cerano (Br), infatti, c'è un'altra bomba ad orologeria. Ci sono i danni su persone e territorio causati dall'inquinamento prodotto dalla centrale elettrica a carbone Federico II, per la quale il processo si è aperto lo scorso 7 gennaio.
L'altra bomba già innescata è nel leccese. Il Rapporto del Registro Tumori 2012 ha evidenziato infatti dei dati ancora più preoccupanti. Questa terra, oltre all'inquinamento che produce in loco sconta pure il suo essere "sole, mare e vento". Nel vento infatti si nascondono tanti inquinanti che arrivano sia dal polo industriale di Taranto, che da quello di Brindisi. E i dati degli eccessi tumorali per la provincia di Lecce parlano chiaro, dicono che si muore di più.
Evidenze scientifiche come quelle dello studio "Sentieri" e del Registro Tumori dovrebbero far entrare a pieno titolo l'epidemiologia e la ricerca all'interno dei processi decisionali. La Puglia, invece, da questo punto di vista sconta ancora tanti ritardi. Gli studi e le mappature, infatti, stanno solo confermando, senza prevenire, una realtà che i cittadini ormai da anni toccano con mano, nelle proprie case e nei propri affetti. È per questo che una qualunque garanzia di futuro e di sviluppo non può che passare per un investimento ed una nuova programmazione in materia di ricerca e prevenzione sanitaria e ambientale.
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