"Quella polvere sulla nostra uva"
provocato dall’industria siderurgica. Vinse, ma dovette cambiare mestiere
«L’uva contiene una notevole quantità di pulviscolo costituito in massima parte da ossido di ferro, silice, sostanze carboniose e carbonati».
Il 23 febbraio 1972 una relazione di tre pagine chiude definitivamente una storia cominciata trentaquattro anni prima mettendo una pietra sul passato (e anche sul futuro) di Taranto. L’Italsider inquina, l’agricoltura è incompatibile con la fabbrica. Ecco la notizia. Si poteva già intuire, ma il dottor Pasquale Meduri, direttore del reparto chimico del laboratorio provinciale di igiene e profilassi, lo scrive in modo chiaro consegnando il verdetto all’agricoltore Antonio Boccuzzi imponendogli di cambiare mestiere: «L’uva si deve considerare non commestibile né commerciabile».
A volte non c’è niente di più nuovo di una storia vecchia e questa è attualissima benché abbia le sue tre principali tappe in anni un po’ lontani: il 1938, il 1959 e il 1972. Antonio Boccuzzi non li dimenticò mai.
Nel 1938 Boccuzzi ha ventotto anni e decide, con una curiosa migrazione al contrario, di trasferirsi settanta chilometri più a Sud del suo Sud: da Noicattaro, in provincia di Bari, alle campagne di Taranto, terra ricca di vigneti e di uva da tavola, ma poco intraprendente per sfruttarne il mercato. Mezzadro scaltro e con l’uzzolo del commercio, Antonio vede l’affare e trasferisce la famiglia nella masseria Sant’Angelo, alla periferia della città. Gliela affidano i nobili D’Ayala Valva, i proprietari. Così il mezzadro Antonio si porta dietro, oltre a moglie e figli, anche cugini, cognati e altre tre famiglie di Noicattaro. Per una ventina d’anni gli affari vanno bene. Riesce a produrre uva di qualità e a cederla a esportatori che la rivendono in Germania o a produttori vinicoli settentrionali. Uno dei clienti è Martini&Rossi, produttore di liquori. Commercianti arrivano da Bisceglie, Molfetta, Trani e anche da Noicattaro, il suo paese. Antonio Boccuzzi non immagina che i cento ettari intorno alla masseria saranno considerati perfetti dallo Stato per costruirci su un pezzo di Italsider, il quarto centro siderurgico italiano.
Così nel 1959, accompagnata da una squadra di poliziotti, arriva la ruspa sul terreno ormai espropriato. I Boccuzzi — Antonio, la moglie Rosa Antonia e i quattro figli — più le altre famiglie ospitate nella masseria Sant’Angelo, hanno il tempo di portare fuori le masserizie. Poi il braccio meccanico sferra il primo colpo, il secondo, un altro ancora. Giù un brandello di tetto, giù il comignolo, giù i muri. Vito Boccuzzi, il figlio maggiore del mezzadro, aveva vent’anni, allora, e oggi, a 76, ricorda il giorno in cui «buttarono giù tutto e fu l’inizio, perché poi toccò alle altre masserie confinanti, la masseria Cerasa, la Giangrande …».
Dove c’erano le masserie, i vigneti e gli ulivi viene costruito il tubificio, primo impianto siderurgico entrato in funzione nel 1961. Così Antonio si trasferisce un paio di chilometri più in là, tra l’Italsider e il cimitero. Ignora che la contaminazione è in corso. Ha acquistato tre ettari al rione Tamburi, dove la famiglia prende casa. È un luogo tranquillo e non ci avrebbero edificato il cronicario se non fosse un posticino salubre. Ma la rivoluzione industriale sta cambiando tutto. Agli inizi degli anni Settanta la fabbrica continua a crescere, si sta completando il «raddoppio»: significa che dai 600 ettari iniziali si sta allargando e raggiungerà un’estensione di 1500 ettari. Cinque altiforni, due acciaierie, tre tubifici. Il centro siderurgico a ciclo integrale più grande d’Europa. Trentanove anni prima che un’inchiesta giudiziaria parli di disastro ambientale — l’inchiesta esplosa nel 2012 — Antonio Boccuzzi sta per avere tra le mani la prova di quanto l’industrializzazione abbia cambiato la faccia della città in cui ha trasferito la sua famiglia. Il figlio Vito gli segnala un fenomeno curioso: l’uva è coperta da una strana polvere. Boccuzzi si rivolge all’autorità sanitaria cittadina. E il dottor Meduri, direttore del reparto chimico del laboratorio di igiene e profilassi della Provincia di Taranto, «si presentò personalmente, raccolse lui stesso i grappoli da esaminare, era un calabrese gentilissimo, una persona perbene» ricorda Vito.
Nel 1972 — il 23 febbraio — la relazione del dottor Pasquale Meduri inchioda l’Italsider: l’uva è inquinata, immangiabile, inutilizzabile, «non è adatta neanche per la vinificazione». Antonio Boccuzzi porta in tribunale il gigante siderurgico. Ma il processo non si conclude perché i vertici dell’Italsider mettono mano al portafoglio e accettano di pagare un risarcimento di 18 milioni 600mila lire. È una bella somma. Un dipendente dell’Italsider guadagna poco più di centomila lire al mese e una Fiat 126 costa poco meno di un milione. Ma è finita.
Boccuzzi ha 63 anni quando smette di fare l’agricoltore. Abbandona i tre ettari del rione Tamburi contaminati dalla fabbrica. Per una singolare variante al piano regolatore, nel 1974, due anni dopo la relazione del dottor Meduri, l’area viene destinata «in parte a zona per servizi di interesse pubblico e in parte a zona per parchi, giochi e sports». Ci si potrebbe costruire sopra un ambulatorio medico oppure un parco. Ma nel 2012 il sindaco vieta ai bambini di giocare nei giardini pubblici del rione Tamburi. Sono inquinati. Il responsabile del laboratorio di igiene e profilassi, cioè un ente di controllo della Provincia di Taranto, l’aveva scritto 40 anni prima.
Vito Boccuzzi, il figlio del mezzadro, ex dirigente del Comune di Taranto e militante della vecchia Democrazia cristiana, ex collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno e animatore negli anni Ottanta di un battagliero settimanale tarantino di calcio e politica, il «Rossoblù», ha ereditato con i tre fratelli quel terreno. Ma non sa che farsene. Non vale nulla, nessuno lo comprerebbe, «anzi costa più o meno 1.500 euro l’anno tra imposte e manutenzioni» dice. E a 76 anni scopre a sorpresa su YouTube le immagini della ruspa che sradica la masseria Sant’Angelo, rivede la scena vissuta nel 1959. «Mamma mia, mamma mia…» sussurra. Si stupisce, Vito, che si parli ancora di caso Italsider-Ilva («era noto tutto già allora») e gli scappa un altro numero: il 1982. È l’anno in cui il pretore Franco Sebastio emette la prima sentenza di condanna contro l’Italsider per l’inquinamento derivante dai parchi minerali, ma soprattutto l’anno in cui muore settantaduenne il papà Antonio. Il quale se ne va con un «premio alla carriera». Negli anni del boom economico lo Stato italiano gli ha conferito il titolo di cavaliere del lavoro per i suoi meriti nel settore agricolo. Onorificenza consegnata da Giuseppe Saragat, il presidente della Repubblica al quale, nel 1965, era toccato il compito di inaugurare l’Italsider.
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