Ci sono persone che incontri e che hanno su di te lo stesso effetto di un segnale stradale: attirano la tua attenzione, le ascolti, ci parli, ma poi vai avanti e dimentichi. E poi ci sono persone che incontri e su di te hanno l’effetto di una pietra miliare: ti fanno capire chi sei, da dove vieni e dove potresti andare. E non le dimentichi.
Ho incontrato Luciano Marescotti in un aprile di pochi anni fa, in una scuola di Taranto dove Alessandro, il figlio, lo aveva portato perché incontrasse gli studenti e parlasse loro della Resistenza. Di quella meravigliosa stagione (sì, fa un certo effetto usare questo termine riferendosi ad un periodo in cui le stragi e i lutti erano all’ordine del giorno) che vide gli italiani ritrovare (o trovare) il coraggio di scegliere il proprio destino e di combattere per la libertà.
Mentre Luciano parlava agli studenti, ero particolarmente attirato dai suoi gesti, dalle mani che muoveva e contorceva nel ricordare i giorni della resistenza, la sua mamma, il suo papà, il fratello, gli amici e la donna della sua vita che con lui venne a vivere a Taranto. Luciano era stato un partigiano. Aveva indossato la divisa del regio esercito e poi, dopo l’8 Settembre, era tornato a casa scampando alla deportazione in Germania. E una volta a casa aveva aderito ai gruppi della Resistenza. Una “carriera” comune a quella di tanti altri partigiani, ma lui era stato in qualche modo diverso. È stato sempre in qualche modo diverso, perché quello che hai dentro da giovane lo porti con te anche da anziano.
A Luciano non piaceva sparare. Non amava la violenza, lo spargimento di sangue. E se avesse potuto esprimere un desiderio, in quei lunghi mesi di guerra che precedettero la liberazione, avrebbe certamente chiesto di poter andare a ballare. Gli piaceva molto farlo e con quelle mani che parlavano da sole raccontava anche delle feste che seguirono agli ultimi colpi di cannone.
Bastavano poche lampadine colorate, qualche strumento musicale o un fonografo, una terrazza e le ragazze con cui ballare. Si divertiva così l’Italia dell’immediato dopoguerra, quando ancora le macerie erano parte integrante del panorama.
“Macerie in strada e macerie nell’anima”, disse quel giorno Luciano. E raccontò anche della sua mamma che in piena notte si alzava dal letto e restava dietro una finestra, pronta a svegliare gli uomini di casa se sentiva arrivare i camion dei tedeschi. Luciano si nascondeva col suò papà in una botola sotto il comò, in camera da letto. Il fratello più piccolo si dileguava nella campagna. Una mamma immensa, che proteggeva così i suoi amori dai rastrellamenti ma che era capace anche di piangere se a morire, in quella maledetta guerra, erano ragazzi tedeschi. Che stavano dalla parte sbagliata, ma che erano pur sempre dei ragazzi. Ovvio che con una mamma simile Luciano odiasse le armi.
Da ieri il partigiano che non voleva sparare non c’è più. Pian piano stiamo perdendo gli ultimi protagonisti della Resistenza. Normale che accada, ma non c’è da sentirsi orfani. Luciano e gli altri non sono stati segnali stradali, ma pietre miliari. Che restano lì a dirci chi siamo, da dove veniamo e dove dovremmo andare.
Venerdì 2 Giugno 2017 di Renato MORO (Quotidiano di Puglia)