Dio c’è ed esiste proprio all’inferno
«… Ero direttore di “Nigrizia“. Sono stato silurato, sbattuto fuori da autorità molto in alto». «Ho deciso di andare in Africa. Perché se Dio c’è, può essere scoperto soltanto all’inferno, tra i dannati della Terra».
«A Korogocho, in Kenya, dove vivo, c’è una discarica. E lì abitano in migliaia. “Un bianco nella discarica? Ti accoltellano, ti fanno fuori!” Io sono andato da loro, e loro hanno cominciato a venire da me». «Le ragazze fanno le prostitute. Non hanno altro modo per sopravvivere. E quasi il cinquanta per cento degli abitanti di Korogocho è sieropositivo».
Padre Zanotelli, comboniano forte e scomodo, racconta la sua vita. E parla dell’Italia di oggi.
Ho rotto un po’ il mio ritiro in una baita dell’alta Val di Non, dove sto cercando di pregare, di riflettere. È importante per tutti noi fermarci un attimo e riflettere. Ho sentito a Korogocho, in Kenya, soprattutto questo senso misterioso che è difficile da definire, ma che forse è il senso della presenza degli assenti. Molte volte anche quando sono da solo, nel cuore della notte, là io mi sento abitato dalla gente, non solo dalla gente di Korogocho dai quali sono mangiato, ma anche dalla presenza di tantissimi amici assenti.
Silurato
Io ero sempre stato in Italia, avevo fatto un’esperienza in Sudan ma avevo essenzialmente insegnato. Poi ero stato a “Nigrizia”, e voi sapete che le idee non fanno crescere gli uomini. Non siete uomini perché avete idee, siete uomini perché riuscite a relazionarvi con altri uomini e crescete in umanità. Questo è il motivo per cui sentivo il bisogno di una immersione nel reale. Inoltre ero sicuro che se Dio c’è, può essere scoperto soltanto all’inferno. Dio è il Dio dei dannati della terra. Per questo sentivo il profondo bisogno di un’immersione nel reale, per cambiare me stesso, perché le parole sono facili, ma difficile è vivere. Ho scelto dopo varie possibilità e ho deciso di andare in Africa. Questo non vuol dire che non sono stato mandato via. Io sono stato silurato da “Nigrizia”, sbattuto fuori da autorità molto in alto per le mie denunce sugli scandali della cooperazione e sui traffici d’armi. Ma è altrettanto vero che ero io che stavo cercando di andarmene.
Nairobi
Ho scelto Nairobi, una città di tre milioni di abitanti, una città bellissima, in stile europeo. Era stata scelta dagli inglesi che credevano di rimanerci per sempre. Ma in questa città il sessanta per cento della popolazione vive in baracche. Un milione e ottocentomila persone vivono accatastate nell’un per cento del territorio disponibile. Le bestie feroci del parco nazionale sono trattate molto meglio, perché sono destinate ai casti occhi dei turisti. Questa poca terra è proprietà del governo, che può venire quando e come vuole – l’ha fatto già diverse volte in questi ultimi anni – e “livellare” la baraccopoli, buttare giù tutto e buttare i poveri più in là. Se non bastasse, l’ottanta per cento degli stessi baraccati paga l’affitto della baracca a dei signorotti che vivono e fanno soldi su di loro.
Korogocho, il posto in cui io abito, è solo una delle tante baraccopoli, la terza per grandezza. Due chilometri di lunghezza per uno e mezzo di larghezza, è una collina a schiena d’asino tra due fiumi, dove sono concentrate centomila persone, “sardinizzate”.
La Discarica
L’emarginazione è una catena continua e guardandomi attorno ho notato che esistevano dei gruppi emarginati dagli stessi abitanti di Korogocho, cioè dagli stessi emarginati. A fianco di Korogocho c’è la discarica pubblica, dove i camion arrivano e scaricano cumuli di immondizie. Lì in continuazione sono fumi, si vive in una cappa di piombo e non si fa altro che tossire. Su questa discarica vivono migliaia di persone, donne, bambini, uomini che passano le loro giornate a raccogliere i rifiuti per poi rivenderli. Tutto viene riciclato, non c’è nulla che vada sprecato: i dentifrici che buttiamo, i tappi delle bottiglie, i pezzettini di carta, tutto recuperato e venduto.
Ero arrivato da cinque, sei mesi a Nairobi quando Geremia, un pezzo d’uomo della discarica, mi ha fermato lungo la strada e mi ha detto: «Straniero, congratulazioni, perché sei il primo bianco che è entrato qui e ha avuto il coraggio di viverci, di andare in giro a camminare, a visitare la gente. Bravo. Ma chi siamo noi, siamo forse bestie perché tu non ti degni di venire a trovarci?». Che pugno allo stomaco. Allora gli ho risposto: «Va bene, domani vengo da te». La gente di Korogocho quando l’ha saputo mi diceva: «Ma sei matto? Un bianco nella discarica? Ti accoltellano, ti fanno fuori». Io ho deciso di andarci. Avevo paura. Ho girato cercando questo tizio, questo Geremia e finalmente l’ho trovato. Si è messo a ridere e mi ha detto: «Ah, hai mantenuto la promessa, vieni». E mi ha portato in giro a trovare la gente. Ho salutato, ho stretto mani. Da lì è nato un primo rapporto.
Poi hanno cominciato a venire da me, a bere un po’ di tè, e ho proposto loro di ritrovarci ogni tanto. È nata l’idea di una piccola comunità cristiana fatta di uomini. Eravamo quaranta, cinquanta uomini, tutti ubriachi, a leggere il Vangelo e a commentarlo. Vennero fuori delle cose straordinarie, ma soprattutto la gioia di prendere il Vangelo in mano e leggerlo da soli, di raccontare il nostro Vangelo. Ubriachi o no, squinternati o no. Lentamente si sono dati delle regole ed è nata la comunità della discarica, la nostra prima delle trenta comunità cristiane, che ha fatto una prima scelta. Noi dicevamo loro: «Voi raccogliete rifiuti dalla mattina alla sera, andate a vendere, e poi chi ci guadagna? Ci guadagnano i mediatori. E perché non potete guadagnare voi soli?».
Ci hanno riflettuto, si sono messi in proprio, in cooperativa, e hanno cominciato a comperare e a vendere. Il lavoro, la comunità, la Parola, il tentativo di queste persone di ricostruirsi una dignità, lontano dall’alcool. Con l’aiuto di un laico straordinario, Gino Filippini di Brescia, è nata una bella realtà che fattura diciassette milioni al mese.
Ragazze
La seconda categoria di emarginati tra gli emarginati sono le ragazze. Per le ragazze che nascono a Korogocho, non c’è altra via che la prostituzione per poter sopravvivere. Emarginate, disprezzate, le donne pagano più duramente degli uomini la pauperizzazione. Il volto stupendo e triste di Wangoi, una ragazzina di diciotto anni. Ha perso due anni fa la sorella, stroncata a ventun anni dall’Aids, dopo una lunga Via Crucis di sofferenza indicibile. Ricordo commosso il suo battesimo, gli intensi momenti di eucarestia, la sua preghiera sul letto di morte insieme al suo bimbo (mai ho sentito un bimbo di nove anni pregare così l’Abbà (Baba), perché salvi la sua mamma. Ricordo le lacrime di Wangoi il giorno della sepoltura della sorella. Era rimasta sola, a sedici anni, con cinque bambini a carico (due suoi, tre dalla sorella). Tentò di sopravvivere vendendo changaa (liquore). Ma non durò molto, per i continui interventi della polizia (è proibito vendere changaa). Unica via che le restava: andare in città a prostituirsi. «Cosa hai da ridire?» borbottò un giorno quando vide la mia reazione. «Dimmi, ma io come posso vivere?». (Vedo sempre di più quanto sia borghese anche la nostra moralità!). Pochi mesi dopo ritornò incinta. «Voglio abortire – mi disse – non riesco neanche a sfamare i tre che ho (il più piccolo della sorella era morto di Aids), non posso permettermene un altro!». Parlava, piangeva. Molti mesi dopo passai per la baracca di Wangoi. Con fierezza mi mise fra le mani un batuffolino: un bimbo stupendo! Lo cullo a lungo. È proprio vero che quel bimbo è un segno che Dio non si è ancora stufato dell’uomo!
Queste ragazze, così provate, diffidenti, non volevano mettersi insieme, nulla da fare. Oggi però è nata la piccola comunità dell’Udada, la sorellanza. Prostitute, ex-prostitute, ragazzine dai tredici ai venticinque anni, che tentano di uscire dal giro, soprattutto perché cominciano a capire il legame che c’è fra prostituzione e Aids. Ad una di loro dissi per scuoterla: «Ma vuoi morire in fretta?». E lei mi rispose: «Alex, prendi un pezzetto di carta, scrivici “morte per fame”. Prendi un altro pezzetto di carta e scrivici “morte per Aids”. Poi tira a sorte. L’una vale l’altra».
È vero. Loro sono prostitute. Come se noi non fossimo prostituti, noi che con il nostro sistema le obblighiamo per forza a vendersi.
L’AIDS
Quasi il cinquanta per cento degli abitanti a Korogocho è sieropositivo. E la maggior parte sono donne, sole, con i loro bambini. Quando la mamma si ammala di Aids è finita, crolla tutto. Per di più c’è la condanna degli altri: «Ha l’Aids», dicono, e sei morto. Da noi l’Aids prende essenzialmente i polmoni, e si muore, atrocemente, di tubercolosi. Ricordo il volto di Njeri. «Sono sola! Non ho nessuno, né mamma, né fratelli, né sorelle. Non ho mai conosciuto mio padre. Sono sola come un cane!». Le metto la mano sulla testa per farle sentire che ci sono. «Voglio morire! Voglio morire in fretta! Prenderò il veleno!». Tento di consolarla. «Sai – mi fa stringendomi le mani – se io avessi avuto un papà come te, oggi non sarei qui divorata dall’Aids a ventiquattro anni! Ma perché non ho avuto la grazia di un papà nella vita? Perché tu l’hai avuto e io no?». E piange disperatamente. Era da quattro anni che cercavo di fare da spalla a questa ragazza-prostituta. «Aiutami a morire con il sorriso sulle labbra – mi disse commossa, il giorno in cui seppe che aveva l’Aids – come hai aiutato la Lucy Kafula a morire con il sorriso sulle labbra». Già minata dalla malattia, chiese, sul letto di sofferenza, il battesimo. Risorse a vita nuova, ritornò a sorridere e a portare la buona novella a molti ammalati di Aids in tutto il Kenya, per quattro lunghi anni.
Ma non è facile lottare da soli contro l’Aids a Korogocho. Nell’ultimo periodo, per dimenticare la sua solitudine, si era data al bere. «Confessami, Alex», mi disse un giorno singhiozzando. La confessai. Poi sul tavolo della baracca, sotto lo sguardo di quello stupendo Cristo crocifisso sul Malawi, spezzammo il pane come due pellegrini diretti ad Emmaus. Per Njeri era la sera della sua vita. Quando la rividi giorni dopo era alla fine. Strinsi fra le mie braccia quella testa in segno di tenerezza, per farle sentire la mia vicinanza, per dirle che non era sola! Morì il giorno dopo, all’ospedale Kenyatta, nel cuore della notte, da sola.
Volti… volti di ragazze bruciate… di bimbi…
Kasui, una bimba di 7 anni, Kimeo un bimbo di quattro, figli di mamma Minoo, una splendida donna, stroncata dall’Aids lo scorso gennaio. Insieme con padre Antonio avevamo condiviso la cena dello scorso Natale con mamma Minoo e i due bimbi! Morta la mamma, i due bimbi sono rimasti con la sorella Ndinda, di soli quattordici anni, anche lei minata dall’Aids che la stroncò poco dopo, lasciando i due bimbi in balia di se stessi. Questa tragedia familiare li spinse ad un gesto folle. L’undici aprile, Kasui, tenendo stretto per mano Kimeo, si portò sul ciglio del dirupo che sovrasta il grande acquitrino che divide Korogocho dalla discarica. Kasui tentava di trascinare nell’acqua il fratellino che però cercava di contrastare la sorellina dal compiere il folle gesto. Furono salvati da una donna che passava di là. Ce li portò a casa. Decidemmo di chiedere alle suore di Madre Teresa se potevano accettarli. Li accompagnai di persona tenendoli per mano e scrutando quelle due creature per capirci qualcosa… Ma cosa c’è di così demoniaco a Korogocho da portare due bimbi che si aprono alla vita al suicidio? Non dimenticherò mai il volto di quei bimbi…
Noi assistiamo i malati, li visitiamo, e ogni sera celebriamo in una baracca, con la comunità, insieme al malato, per dire a queste persone che stanno morendo che Dio gli vuole bene. Dieci, quindici persone, accatastate in una stanzetta di tre per quattro.
La mia fede è già povera e in situazioni così capisci che la fede vera è più grande di tutte le Chiese, ed è presente nella voglia di vivere di questa gente circondata, attanagliata dalla morte.
Persona e sistema
L’immersione con i poveri mi sta ridando la fede in un Dio che è il Dio degli schiavi, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, delle prostitute. È il loro Dio, Dio sta dalla loro parte, per contestare un disordine costituito come quello che abbiamo in questo mondo. Ed ecco che mi appello a voi, per cambiare noi. Il comunismo diceva: «il problema del male sta nelle strutture. Cambiate le strutture e l’uomo cambierà». Non è vero. Il Vangelo dice: «Tu cambia la persona e il mondo cambia». Ma anche noi dobbiamo dire che abbiamo fallito, perché non è vero. Non è mai successo nella storia che abbiamo cambiato dall’interno un sistema o una società. Forse la chiave sta nel coniugare queste due importanti verità. Mano a mano che tu cambi, devi accorgerti che fai parte di strutture familiari, sociali, ambientali, economiche e politiche che se non cambiano con te ti risucchieranno là dov’eri prima, Io devo sentire che oggi sono interpellato, io lo so, l’ho scoperto a Korogocho, io so che c’è l’inferno. Ma se c’è Korogocho, se ci sono le Korogocho di questo mondo, c’è qualcosa che non va.
Il Moloch dell’economia
0ggi è l’economia che detta legge, che fa la politica. Usciamo anche da questo concetto di stato di diritto. Ma dov’è lo stato di diritto, oggi? Sono le forze economiche che guidano questo paese, e i politici sono qui a fare da burattinai, per farci digerire le pillole dolci o amare imposte dell’economia. La Banca Mondiale nel suo rapporto sulla povertà, per la prima volta nella storia ha avuto il coraggio di dire che un miliardo di esseri umani sono inutili per il mercato, non hanno né futuro, né lavoro, sono cancellati. Ora se un miliardo di persone lo sacrifichiamo al Moloch del denaro, allora questa è piena idolatria e io, proprio in nome dei poveri, sento l’obbligo di dire che siamo in stato di peccato mortale, tutti. Se vogliamo che cambi qualcosa deve cambiare un sistema economico mondiale al quale sacrifichiamo ogni anno quaranta milioni di persone.
Piangiamo su Auschwitz, piangiamo sull’Olocausto e abbiamo il diritto di urlare e gridare. Ma dobbiamo piangere su questi quaranta milioni che pagano questo sistema e che sono immolati al denaro, al libero mercato, questo è il peccato del mondo. Voi lo sapete. Toglietevi le bende dagli occhi e reagite. Trasformate la libertà che avete, in un mondo che sia meno indecente possibile. Non vi parlo mica dei massimi sistemi, parlo della concretezza quotidiana. Dobbiamo cominciare a capire che questo sistema va avanti perché io lo voglio. Perché voi non solo lo votate, ma lo vivete quotidianamente attraverso le vostre scelte, da come vestite a cosa mangiate, da che cosa comprate andando al supermercato, mettendo i soldi in banca, scegliendo un lavoro. Quanti di voi sono andati a confessarsi perché, finita l’università, hanno scelto un lavoro perché dava il massimo guadagno? Abbiamo fatto del sesso una mitologia, dell’economia no. Gli scienziati tedeschi in questi giorni propongono che nei prossimi dieci anni i loro connazionali diminuiscano del cinquanta per cento i loro consumi energetici, per cercare di sopravvivere, perché questo mondo sta andando incontro alla morte. Gli scienziati americani, mica i comunisti, ci danno cinquanta anni per cambiare il sistema, dopo di che sarà troppo tardi.
Uscite allo scoperto
La cosa più terribile è girare, come faccio in questi giorni, per la Val di Non, dove sto adesso a pregare e meditare. È una valle bellissima, con delle splendide comunità montane dove io sono cresciuto da ragazzino. Qualche giorno fa esco dalla mia baita e inizio a camminare. Ho girato un’ora e mezza, quattro paesi: non ho visto una sola anima. C’erano solo le mele Golden, la Melinda. Andate in osteria, si cantava una volta. Provate a cantare adesso: vi dicono subito che siete matti. È la disgregazione totale. Io sono stanco di sentire le voci sommerse. Vado in giro e trovo le sale piene, questo è il sommerso dell’Italia. Qualche giorno fa mi hanno presentato un parroco in Trentino e lui mi ha detto: «Alex, stai attento, che questa gente ti batte le mani e poi va a votare Alleanza Nazionale». Vi dico: uscite allo scoperto. Quando sentite il senatore Bossi dire delle fesserie, dite, come associazioni, che il senatore Bossi dice delle bestemmie. Guardiamolo in faccia questo sistema mondiale, basato sull’omicidio, sulla violenza.
Cambiamo ognuno di noi, se vogliamo davvero dare ai nostri figli la stessa gioia che hanno i poveri di Korogocho quando la domenica mattina ballano e cantano perché Dio c’è ed esiste proprio all’inferno.
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