I care ancora. Inediti. Lettere, appunti e carte varie
Giornate intense queste a Korogocho, giornate piene di tensione, perché il problema della terra, su cui la baraccopoli è costruita, diventa sempre più scottante.
Korogocho, una delle peggiori baraccopoli alla periferia di Nairobi, è costruita su una piccola collina di due chilometri per uno. Il 60% della popolazione della città - oltre due milioni di persone - è costretta a vivere nell’1,5% del territorio della municipalità, “sardinizzata” in oltre cento baraccopoli dove il degrado ambientale, urbano e sociale è spaventoso. Korogocho potrebbe essere l’ultimo girone infernale di questa “città del sole” governata da un apartheid economico raffinato.
In tale situazione non è facile unire i poveri, divisi oltre tutto tra proprietari delle baracche e affittuari (oltre l'80%!). Noi ci siamo schierati decisamente a fianco dei più poveri… Lavorare e lottare con gli impoveriti dal sistema non è facile, proprio perché si è al limite dell’umano. Ma proprio per questo abbiamo scelto di essere qui. È una lotta difficile questa: camminare con loro, lavorare con loro, lottare con loro. È una sfida unica. È un osso duro per i nostri denti (“fai largo ai poveri, senza farti largo” diceva don Milani)…, ma è proprio per questo che ho scelto di esserci. Gesù non ha fatto lo stesso nella sua Galilea delle genti? È stato davvero vólto dell’Abbà per tutta la poveraglia della sua terra impoverita dall’imperialismo romano.
Penso che se don Milani fosse vivo oggi farebbe anche lui l’opzione dei poveri. È questo il significato dell’opzione per Barbiana (per Milani era una scelta, non un esilio!). “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri”, afferma nella Replica ai Cappellani Militari, “allora vi dirò che reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati e oppressori dall’altro. I primi sono la mia patria, i secondi sono i miei stranieri”.
Ecco perché quando mi è stato chiesto di scrivere la presentazione di questo libro ho sentito l’obbligo di accettare. Il legame che mi unisce a don Milani, e al suo alunno Francesco Gesualdi, è molto forte. Don Milani è stato uno dei maestri più influenti della mia vita. Né avrei mai pensato di diventare compagno di cordata del suo amatissimo discepolo, Francuccio. La vita sembra tutta un caso… poi scopri che qualcuno con mano invisibile (non quella del mercato, per fortuna!) sa riannodare tanti fili sparsi.
Non ho mai conosciuto don Milani di persona. Negli anni in cui il suo nome veniva alla ribalta io ero ben lontano dall’Italia, negli USA a studiare, e poi in Sudan. Fu infatti a El-Abeid, nel lontano 1967, che cominciai a leggere di don Milani sulle pagine de “Il Regno”. Fui folgorato dalle sue posizioni sull’obiezione di coscienza, sulla guerra, sull’esercito…, sulla storia italiana letta da un’altra prospettiva. La Lettera ai giudici fu certamente il testo che più mi colpì, perché veniva a scardinare una mia cultura personale militarista e violenta. Mi sono sentito rivoltare nel più profondo del mio pensiero. Fu questo per me l’inizio di un ripensamento radicale delle mie posizioni, che mi porterà quindici anni dopo, e precisamente nel 1985, al lancio di “Beati i Costruttori di Pace” (per me fu un cambiamento a 180 gradi).
Questo movimento era il tentativo di saldare il binomio Vangelo e pace dentro la Chiesa del Triveneto (“Beati” nasce nel cuore della Chiesa del Nord-Est). Purtroppo, il tentativo naufragò subito. E pensare che l’arcivescovo di Udine, Battisti, aveva già preparato una bella lettera pastorale a nome dei vescovi del Triveneto in risposta a “Beati”. Ma la reazione delle forze politiche italiane (DC in testa!), in particolare di Spadolini ("quei preti rossi del Triveneto") e l'opposizione rabbiosa della segreteria di Stato fecero fallire il primo serio tentativo di far assumere ufficialmente l’istanza della nonviolenza evangelica dalla Chiesa italiana. Battisti pubblicherà poi quella lettera a nome proprio. E tra i vescovi del Triveneto e “Beati” regnò il gelo! L’allora arcivescovo di Trieste, Bellomi, che aveva firmato a nome dei vescovi (con la benedizione del cardinale Cé) fu marginalizzato. Ne soffrì molto (non potrò mai dimenticare le sue lacrime quando venne a salutarmi a Korogocho).
E per la Chiesa, in chiave di pace, si è continuato così fino ad oggi, con la celebrazione del Giubileo delle Forze Armate e il rifiuto del Giubileo degli Obiettori (il cardinale Biffi non ha forse affermato che “la nonviolenza non è una virtù evangelica”?!).
Ma la pace è solo uno dei problemi che questa nostra Chiesa non riesce ad affrontare seriamente. Economia e politica sono due aspetti fondamentali del vivere umano che come Chiesa non riusciamo a coniugare in modo serio. Una realtà, questa, che don Milani aveva colto bene nella Lettera a don Piero, in appendice ad Esperienze pastorali: “Parli dunque pure il prete di governi e di politica, ma solo per criticarli. Mostri al cristiano soltanto quanto lontano egli sia dall’ideale altissimo del Cristianesimo e mai lodi le realizzazioni terrene dei cattolici che (se anche dovessero divenire molto meglio di quel che tragicamente sono) saranno sempre orribili parodie dell’ideale”.
Niente meglio di questa affermazione esprimeva il mio stato d’animo quando lavoravo alla rivista dei comboniani “Nigrizia”. Quello che sentivo più forte era proprio questo tradimento. Il tradimento delle istanze evangeliche in un’Italia retta in primis dalla DC, che diceva di ispirarsi a principi cristiani, mi appariva talmente ovvio che solamente un cieco poteva non vederlo. (La Chiesa ufficiale, con larga benedizione vaticana, si ostinava a sostenere che questo era il “minor male” per salvarci dal “grande male”, il comunismo. Si esaltava così il trionfo dei principi machiavellici: il fine giustifica i mezzi!). In tutto questo, gli scritti di don Milani mi hanno sovente illuminato e stimolato (insieme a quelli di due suoi grandi amici preti, Balducci e Turoldo! Furono questi i miei maestri, non Marx!).
Si arrivò così al noto editoriale: Il volto italiano della fame africana (“Nigrizia”, gennaio 1985). Scoppiò il finimondo politico ed ecclesiastico. Il siluramento fu automatico (aprile 1987). Ma anche per me Korogocho non fu l’esilio, ma una scelta voluta e ricercata. Era il bisogno di sentire sulla mia pelle la tragedia dei poveri. Era un imperativo di prete e di missionario. Sono dodici anni che cammino nelle strade fangose e polverose dei poveri.
Proprio all’inizio di questo mio camminare a Korogocho fui raggiunto da una lettera del “cucciolo” di don Milani, Francuccio Gesualdi. Mi chiedeva se potevo scrivere una presentazione del suo libro Lettera ad un consumatore del Nord, che si richiamava senza dubbio al genere tipico della scuola di Barbiana: la Lettera.
Non conoscevo personalmente Francuccio. Accettai alla fine il suo invito. Era il primo testo che scrivevo da Korogocho, dove ero arrivato solo da qualche mese. Con la fionda di Davide si intitolava quella presentazione. Da qui nacque un’amicizia con Francesco Gesualdi, che andò sempre rafforzandosi.
Fu grazie a lui che mi buttai nell’avventura della campagna contro la Del Monte. Fin dal mio arrivo a Korogocho avevo seguito, ma dall’esterno, la gestione di quella multinazionale. Ma ero talmente preso dalla realtà di Korogocho che non trovavo tempo per altro. Gesualdi continuò a stuzzicarmi, forse memore delle parole che gli aveva scritto il vecchio maestro: “Mi piacerebbe che tu lavorassi nel sindacato a livello di rapporti internazionali con il Terzo Mondo”.
Fu solo nel ’97 che un giovane laureato di Korogocho, Stefen Onma, si rese disponibile per una ricerca seria che coinvolse il sindacato di Daniele Knile, splendida figura di resistente. Una volta compiuta la ricerca, Gesualdi venne di persona per valutare la situazione. Fu una gioia ospitarlo nella nostra baracca. Decise che si poteva lanciare una campagna di boicottaggio contro la Del Monte (era la prima volta che questo avveniva nell’Africa Nera!), una campagna che ha dato molto in fretta i suoi frutti. Siamo infatti alla vigilia di un insperato successo: la Del Monte sembra ormai pronta a trattare.
Questa vittoria si proietta su altre drammatiche realtà di sfruttamento: l’industria dei fiori, del tè, del caffè. È l’inizio di qualcosa di nuovo in Africa. E questo grazie a un discepolo di don Milani, che tenta di tradurre il messaggio del maestro nell’oggi.
Questo mi sembra molto importante, perché ci ricorda quanto sia giusto il non utilizzare nessuno, perché ciascuno è chiamato da Dio a rispondere creativamente al momento storico che vive. Don Milani ha risposto creativamente al suo tempo con la scuola di Barbiana; il suo discepolo con il consumo critico, con i nuovi stili di vita, con i boicottaggi: “Là dove oggi si può e si deve fare nuova scuola, nuova educazione per la liberazione degli oppressi, per la difesa della natura, per la speranza delle future generazioni”.
Purtroppo la Chiesa italiana non ha ancora capito la “profezia” di don Milani, né che grande dono è stato per lei. Nei vari anniversari, non una parola da parte della Conferenza Episcopale Italiana sulla sua figura. Che vergogna! “Il suo maggiore tormento - scriveva Liana Fiorani - fu di non essere riconosciuto come prete al centro della Chiesa e non ai margini. Voleva essere prete, nient’altro che prete!”
Più intelligente, in questo, il politico Veltroni che ha scippato il motto di don Milani “I care” per farlo divenire quello del suo partito. Senza però assumere lo spessore politico del pensiero del priore di Barbiana. Questo significa strumentalizzare don Milani! Allo stesso modo non è giusto sbandierare Korogocho senza assumere le istanze politiche degli impoveriti (come è stata deludente in questo senso la risposta di Veltroni alla lettera aperta che gli avevo rivolto dalle pagine di “Nigrizia”!).
C’è più che mai bisogno oggi di giovani (“ho voluto più bene a voi ragazzi che a Dio” ha scritto don Milani nel testamento) che abbiano il coraggio di rispondere creativamente alle nuove sfide che incombono nella storia umana. Giovani decisi a battersi per un’Italia capace di futuro, per un mondo capace di futuro. “Non vedremo sbocciare santi - scriveva don Milani - finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale”.
Spero che il grido immenso di sofferenza degli impoveriti di Korogocho e di tutte le Korogocho del mondo trovi menti e cuori attenti. Don Milani avrebbe esclamato: “Me ne care ancora molto!”.
Alex Zanotelli
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