Perché a Korogocho?
Perché la scelta di Korogocho? Prima di tutto cos’è Korogocho? Korogocho è una delle tante baraccopoli di Nairobi, la capitale del Kenya. Nairobi ha circa quattro milioni di abitanti. E’ ormai accertato che su quattro milioni di abitanti, oltre due milioni di abitanti, il 60% della popolazione di Nairobi, vive in baraccopoli. E quello che è ancora più sconcertante è che non solo la maggioranza della popolazione di Nairobi viva in baracche, ma che il 60% della popolazione di Nairobi, quindi oltre due milioni di abitanti, è costretta a vivere dentro l’1,5% della terra totale di Nairobi. Le bestie selvagge nei parchi nazionali del Kenya sono trattate molto meglio del 60% della popolazione della capitale del Kenya.
Non solo, quello che sconcerta, dentro questa drammatica realtà, non è solo la sardinizzazione delle persone, che avviene naturalmente se così tanta gente è costretta a vivere in così poco spazio, ma è anche il fatto che le baracche stesse, dentro queste baraccopoli, in buona parte non sono proprietà dei baraccati, ma di gente che vive un po’ più discretamente e che vive alle spalle dei baraccati, cioè ottenendo l’affitto. Generalmente si ammette che il 70-80% della popolazione che vive in baraccopoli vive pagando l’affitto ad altri che possiedono queste baracche, e qui si innesca tutto il meccanismo dentro le baraccopoli di Nairobi di sfruttamento del povero col povero. C’è da aggiungere, atto molto grave, che neanche questo 1,5% della terra di Nairobi in cui i baraccati sono costretti a vivere appartiene ai baraccati, ma appartiene al governo. Il governo quando ha necessità (e qui si innesca il meccanismo della corruzione totale governativa ) per pagare i ricchi, gli speculatori finanziari, per l’appoggio politico, offre loro un pezzo di questo terreno. Il governo dà 24 ore di preavviso ai baraccati che vengono poi buttati fuori e spinti più in là. Si può allora immaginare che il risultato di questa politica è devastante. Prima di tutto nessun baraccato ha voglia di abbellire un po’ la sua baracca o di trasformare il suo ambiente. Vive in questa condizione di radicale, totale precarietà con un unico servizio offerto dal governo, quello dell’acqua che però è rivenduta dagli stessi abitanti a prezzi maggiorati. Non ci sono altri servizi da parte del governo. Le conseguenze di questo diventano poi chiare: le malattie che infestano questa zona. Situazioni come quella dell’AIDS, che costituisce una delle maggiori minacce alla popolazione dei baraccati di Nairobi. C’è chi parla del 50% di sieropositivi nelle baraccopoli. Lo sfacelo sociale è talmente chiaro: è inutile parlare di famiglie, buona parte sono donne con bambini e senza un marito. La sicurezza è violenza, violenza drammatica a volte nelle baraccopoli. Violenza incredibile che si sperimenta dove nessuno esclude nulla, perché in fondo è la lotta alla pura sopravvivenza.
Ecco il quadro, direi, delle baraccopoli di Nairobi, ma, forse per capire ancora di più la situazione delle baraccopoli e l’incredibile realtà di Nairobi, dobbiamo tenere presente che davanti a tanta sofferenza e a tale sofferenza umana dei baraccati che costituiscono il 60%, dall’altra parte c’è una ricchezza ostentata che lascia sbalorditi. Davanti a Korogocho, a tre chilometri di distanza c’è una delle zone più ricche di Nairobi, Muthaiga, con una ricchezza, con delle ville, con delle case che farebbero sognare anche noi in Europa. E questo fianco a fianco, faccia a faccia. E’ questa la cosa che colpisce di più a Nairobi: puoi passare dal paradiso all’inferno nel giro di pochi chilometri o di pochi metri. Ho detto all’inizio che Korogocho è una delle tante baraccopoli di Nairobi. Korogocho è una baraccopoli collocata a est di Nairobi, è costruita su una collina, è lunga un chilometro o due al massimo per uno di larghezza e su questa collina sono accatastati centomila abitanti. Accatastati o sardinizzati. Davanti a Korogocho poi c’è questa grande discarica dove arrivano i rifiuti della città di Nairobi e dove migliaia di persone cercano di sopravvivere frugando tra i rifiuti. E’ questa realtà che bisogna tenere presente se si vuole davvero rispondere alla domanda “Perché Korogocho?”.
Perché ho scelto di andare a Korogocho? Perché questa scelta di Korogocho? Ecco, proprio perché Korogocho rappresenta il peggio delle baraccopoli di Nairobi. Il peggio che i poveri sperimentano dentro Nairobi; penso che sia, infatti, una della peggiori baraccopoli, è ammesso da tutti questo. Scendere a Korogocho significa effettivamente scendere con i poveri, condividere con loro la loro sofferenza, fare una scelta effettiva degli ultimi. E ho scelto definitivamente Korogocho proprio perché rappresenta il peggio delle drammatiche realtà che i poveri sperimentano e vivono a Nairobi. La domanda è “Perché tale scelta?”, ma per me è proprio insita in cosa significa fare missione. Fare missione per me significa proprio questa scelta radicale di vita, questo scendere agli inferi. Infatti la prima volta che sono venuto a Korogocho, il 13 gennaio del 1990, ho proprio avuto questo sentore, con lo zaino sulle spalle, proveniente da Mji wa Furaha (la città della gioia) il centro giovanile, proprio si scende, perché le baraccopoli di Nairobi sono tutte nel fondovalle, questa discesa agli inferi che ha fatto Gesù scendendo agli inferi. Gli inferi prima di tutto non solo della sua morte, morte di malfattore, morte di schiavo, morte di sobillatore politico, ma gli inferi della Galilea, Lui li ha scelti come luogo privilegiato ove dire alla Sua gente, soprattutto agli emarginati, agli schiavi, agli esclusi, che Dio è Papà. Fare missione per me significa essere presenti con piccole fraternità alle frontiere della sofferenza umana. Ecco il cuore della missione. Ed ecco perché ho scelto di vivere e Korogocho. Ho detto piccole fraternità che si inseriscono alle frontiere della sofferenza umana.
Le baraccopoli oggi in Africa costituiscono una di queste frontiere. La missione non è soltanto andare in baraccopoli, ma è la scelta delle frontiere, di essere presenti alle frontiere della sofferenza umana. Potrei citare in Africa come frontiere di sofferenza umana la situazione di profughi, dei campi profughi, la situazione di zone infestate dall’AIDS dove la gente muore a migliaia. Zone di guerra, penso ora al Congo, Sudan; tutte queste situazioni di profonda ingiustizia, come Burundi, Rwanda. Situazioni dove i popoli sono minacciati di estinzione. E’ questo essere presenti dentro queste situazioni di grande sofferenza umana per dire con la tua vita che Dio è il Dio di questa gente, perché il Dio che si manifesta nella tradizione ebraico-cristiana è il Dio degli ultimi, eè il Dio degli esclusi, è il Dio di chi non conta, il Dio di chi è condannato, il Dio di chi è sbattuto fuori dal sistema. E’ il loro Dio. Dio non è Dio del sistema e fare missione significa essere presenti in queste drammatiche realtà umane, proclamare che Dio è Papi a questa gente, che è il loro Dio. E lo si proclama attraverso la tua vita, condividendo la sorte degli ultimi più che si può. Camminando con loro e immettendo nel cammino di questa gente questa forza che io chiamo la forza rivoluzionaria del Vangelo di liberazione, perché Dio vuole che tutti i Suoi figli vivano da figli e non da schiavi.
E’ stato per questo che sono andato a Korogocho. All’inizio ero da solo, poi padre Gianni Nobili ha chiesto di venire dallo Zaire e abbiamo costruito la prima fraternità dentro a Korogocho. Poi è venuto padre Antonio D’Agostino con il quale ancora camminiamo dentro Korogocho. Abbiamo avuto poi la grazia di avere un laico, Gino Filippini che ha già trent’anni di esperienza alle spalle in Africa e poi la grazia di un gruppo di laici che hanno accompagnato il cammino delle comunità e dei gruppi, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto dell’autopromozione. Per me è importante questo aspetto di inserimento e abbiamo cercato di inserirci, di condividere più che potevamo la situazione della gente, sentire l’insicurezza, mangiare quello che mangia la gente, vivere alla stregua della gente, avere la porta aperta ed accogliere, dare dignità alla gente. Quello che abbiamo cercato di fare essenzialmente è stato proprio il guardare dentro Korogocho chi soffriva di più è per questo che abbiamo lentamente individuato dei gruppi umani che erano anche loro stessi emarginati dalla stessa popolazione di Korogocho, in particolare li abbiamo identificati nella gente della discarica, coloro che lavorano in discarica e vivono tra rifiuti, nei ragazzi di strada, sono a migliaia dentro Nairobi e dentro Korogocho. I ragazzini nati a Korogocho che sono obbligati a darsi alla prostituzione in città per poter sopravvivere. Ci sono poi gli ammalati di AIDS che sono migliaia che soffrono moltissimo e vengono emarginati. E infine i giovani nati dentro Korogocho che molto spesso si drogano, sono alcolizzati e rubano per poter sopravvivere.
Ecco, a questi gruppi umani più emarginati è andata la precedenza, ci siamo dati da fare per essere un piccolo segno attraverso comunità o piccoli gruppi. Per fare che cosa essenzialmente? Per dir loro che Dio era il loro Dio, era Papi per loro nonostante l’enorme difficoltà e attraverso il lavoro di vario tipo che possiamo definire artistico o artigianale e attraverso il Vangelo, la dimensione di spiritualità, abbiamo cercato di recuperare persone, dare loro dignità, perché possano rialzarsi e continuare con la loro vita come cittadini normali. E questo è uno sforzo che abbiamo fatto proprio in questa prospettiva di essere una piccola fraternità inserita alle frontiere della sofferenza umana per dire a questa gente che Dio è Papà. Questa esperienza di inserimento è stata per me estremamente importante, perché mi ha tirato fuori dal mio mondo che chiamerei borghese, intellettuale e mi ha fatto realmente sporcare le mani dentro la storia. Per me questa immersione è stato un vero battesimo. Capisco adesso forse che se non c’è questo battesimo dell’immersione nella realtà, nella drammatica realtà della sofferenza umana, non avviene nulla dentro di noi. E’ il battesimo dei poveri che ti sconquassa tutto, mette tutto a repentaglio, entrare nelle acque come Gesù è entrato nel Giordano con i poveri della Galilea assumendo tutta la loro sofferenza e questo rimette tutto in discussione il tuo stile di vita, la tua visione, rimette in discussione il come leggi la realtà e rimette in discussione la tua teologia, la morale che hai studiato. Tutto va per aria, tutto va a pezzetti. E questo è una grande grazia, perché allora cominci a ripensare tutto, ma dall’altra parte della realtà. Per me questo è un battesimo che mi ha fatto un male boia, ma che mi ha permesso di rinascere. Ma non è stato solo un battesimo, perché mi ha fatto riscoprire qualcosa di grande: la dimensione dello spezzare il pane, dell’essere prete. Qui davvero ho imparato che cosa significa essere prete. Ho imparato quello che significa non appartenerti più. Davvero è facile spezzare ostie la domenica per la gente o ogni giorno, ma quando tu devi diventare pane per la gente, quando tu devi essere radicalmente disponibile per gli altri, quando non hai più vita privata, quando non ti appartieni più, ma appartieni alla gente in queste drammatiche situazioni umane, allora incominci a capire che cosa significa essere prete. Significa dare la vita, buttarla e allora davvero è andato in crisi un tipo di prete e sono rinato dal di dentro, per cui l’Eucaristia non è più fare una Messa per gli altri, ma diventi tu stesso Eucaristia, pane spezzato per chi soffre, per i più poveri. E’ questa direi la grazia che io chiamo la grazia dell’inserimento con i poveri, la grazia del battesimo dei poveri, la grazia dello scoprire cosa significa essere preti con gli altri, per gli altri. E’ la grazia di Korogocho. E’ la grazia che ti viene dai poveri. E’ la proclamazione che loro ti fanno di chi è Dio. Sono queste celebrazioni serali, fatte nella baracche della gente che ti aiutano a capire chi è Dio.
Sono loro che te lo proclamano, sono loro che ti gridano la loro fede e aiutano la mia poca fede, la mia non fede. Io sono grato a tutte le persone che ho assistito morire a Korogocho, perché mi hanno insegnato e mi hanno fatto intravedere il volto di Dio, ma anche qui è stato un cammino duro, perché è andato a pezzettini anche il mio concetto di Dio e sempre più i poveri di Korogocho mi hanno insegnato a sentire che Dio forse ha il volto più materno che paterno. E’ molto più donna in questo che genera. E come una donna può generare un figlio che è handicappato o che è gravemente malato, per quanto possa fare alla fine non ci può far nulla se non sentire nel suo corpo l’immensa sofferenza per la sofferenza del figlio, può vederlo anche morire senza poterci far nulla; forse è così con Dio. Forse davvero Dio non è l’Onnipotente che pensiamo noi, ma è Colui che cammina con noi, Colui che genera, ma generando si autolimita, perché c’è l’altro con la piena libertà, ma anche accetta la debolezza della materia e come una donna che dopo aver generato, genera qualcuno che non è perfetto, qualcuno che può essere ammalato e cammina con lui, soffre con lui, così penso è con questo Dio dal volto materno. Scopro che ci dev’essere una sofferenza immensa in Lui, Forse davvero ha ragione quel poeta peruviano quando dice parlando del suo popolo: “Io sono nato un giorno in cui Dio era malato, malato grave.” Forse questo Dio ha bisogno della nostra guarigione per guarire anche Lui, perché Dio ci vuole felici. Ed è questo il cammino che sto facendo con loro, mi sembra bello questo concetto, perché in fondo il significato della presenza in questa realtà non è puramente di testimonianza, ma è questo camminare soffrendo con la gente a volte sentendo tutta l’impotenza, ma con questa voglia matta che i poveri possano rimettersi in piedi, possano sperare, possano vivere, perché il Dio in cui credo, il Dio della vita vuole che tutti a questo mondo vivano.
Ecco il cuore di questa esperienza e davvero aiutando i poveri a guarire, a rimettersi in piedi penso che aiuto anche Dio ad essere felice come può essere felice una donna quando vede il bimbo che sta bene. E’ questo il cammino lento e doloroso in cui sempre più mi convinco che devo coniugare la testimonianza del camminare legandola radicalmente alle prospettive economiche, politiche, perché davvero i poveri possano avere una loro dignità. Ed è questo l’altro aspetto che ritengo fondamentale, penso che nella nostra opzione, vivendo dentro a queste situazioni devo pormi fondamentalmente il legame fra la mia fede e quello che è la dinamica politica, sociale, culturale. Se non c’è questo legame, c’è qualcosa che non va. Quello che io sento fondamentale è questo legame fra la testimonianza, l’annuncio, il Vangelo, la mia fede e quello che sono le opzioni economiche, politiche, sociali e culturali della gente con cui cammino. Ed è quanto abbiamo cercato di fare in mille maniere, spesso sbagliando, spesso imboccando strade sbagliate, ma trovo molto bello che proprio in questo momento si stia giocando a tutto campo questa opzione e la giochiamo in questa grande campagna per organizzare tutti i poveri di Nairobi, due milioni di baraccati, per domandare la terra, il diritto alla terra. Sono loro che si stanno organizzando, aiutati da persone, da organizzatori comunitari, ma si organizzano per diventare un soggetto politico che domanderà al governo il diritto sulla terra. Se ottenessimo questo passo penso che avremmo ottenuto uno dei grandi passi proprio di questa opzione con e per i poveri, cioè del legare la mia fede in questo Dio che mi ha scelto e mi ha inviato a Korogocho, il Dio dei poveri, degli ultimi, che vuole la loro liberazione; ed è questa la strada, non è soltanto una testimonianza è un cammino di liberazione in cui i poveri stessi diventano i soggetti, domandano il loro diritto, il diritto a una terra, il diritto a una casa, il diritto alla dignità umana, il diritto a rimettersi in piedi, il diritto a un futuro. E’ questo il cammino della proclamazione del Vangelo, il cammino della missione e sono profondamente grato al Signore per avermi dato questa grazia, la grazia di Korogocho. L’abate generale dei Cistercensi quando è venuto a Korogocho mi ha detto: “Tu non ti meriti questa grazia, è grazia gratis data e gratuitamente data. Devi essere estremamente grato al Signore”. E lo sono. Ecco perché a Korogocho, nonostante tutti i problemi, balliamo e danziamo. Soprattutto questo momento di danze durante le celebrazioni domenicali in cui con le trentasei piccole comunità cristiane danziamo il Dio della vita in una liturgia che abbiamo tentato di inculturare il più possibile in un contesto anche se molto complesso per proclamare questo senso profondo di liberazione. La proclamazione che Dio è Dio che cammina con i poveri, con gli ultimi e che vuole la libertà, che vuole dignità, che vuole che questa gente si rimetta in piedi. Ecco la proclamazione della liturgia settimanale, quando ci ritroviamo nelle piccole comunità a danzare il Dio della vita, a danzare la vita ed è quello che dà anche a me questo tentare di credere ogni giorno che nonostante tutto siamo in un immenso flusso umano in cui ognuno deve dare il proprio contributo perché vinca la vita. E dico grazie ai poveri di Korogocho, perché me lo hanno insegnato !!
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